|
||
Regione Emilia Romagna; Assessorato Pianificazione e Ambiente, Collana naturalistica - La Vena del Gesso - 1974 |
LE PIU' ANTICHE TESTIMONIANZE ANTROPICHE |
Susanna Raccagni |
Un viaggio lungo la Vena del Gesso, a ritroso nel tempo, muove curiosità non solamente storiche. Interessi di tipo geologico e archeologico, ricerche paletnologiche e naturalistiche si impongono all'attenzione e finiscono per stabilire il giro d'orizzonte entro cui l'esplorazione storica ricerca e fonde valori ambientali e culturali. L'indagine si profila allora a partire dai contributi e dalle conoscenze acquisite nelle diverse discipline, attraverso rigorose e specifiche metodologie (tra le altre, il metodo del radiocarbonio per fissare l'età degli organismi; il metodo stratigrafico sulla base del quale un oggetto rinvenuto in strato inferiore è più antico di uno localizzato a livello superiore; la dendrocronologia, ovvero lo studio degli anelli di accrescimento degli alberi; la palinologia, cioè lo studio dei grani di polline che sono praticamente indistruttibili). Tanto più se ne apprezza l'ausilio se come in questo caso l'itinerario storico copre un arco cronologico vasto, che rimanda alla preistoria e protostoria dell'uomo. L'area geografica qui presa in esame è denominata "Vena del Gesso" e si distingue in due aree, bolognese e romagnola. La prima inizia in località Gesso, presso Zola Predosa di Bologna, e senza soluzione di continuità si disvela a tratti, imponendosi qua e là nei nuclei di Tizzano, Casaglia, Gaibola, Monte Donato, Croara, Farneto, Castel de' Britti, con affioramenti di suggestiva bellezza. La seconda, la Vena in senso stretto, individua in Romagna la fascia gessosa "muraglia" per dirlo con Zangheri (1) che corre trasversalmente alle valli, per lo più incassate, dei fiumi e torrenti appenninici Santerno, Senio, Sintria, Lamone. Uno sguardo d'insieme lungo tutta la sua estensione mostra che la cresta rocciosa formata da selenite (il toponimo locale "Vena" è divenuto ufficiale con l'uso dei cartografi dell'Istituto Geografico Militare (2) individua una linea del gesso che senza soluzione di continuità emerge in località Sassatello, nel bacino del Sillaro, e attraversa poi l'intera regione fino a San Marino, dove terminano gli ultimi, sporadici, affioramenti (3). Ma è nella Romagna occidentale, nelle valli imolesi e faentine, che la massa gessosa interrompe la monotonia geomorfologica dell'Appennino, con singolare imponenza. Qui la muraglia corre in direzione NO-SE con andamento quasi parallelo rispetto alla dorsale appenninica. Il torrente Senio, che la interseca, si è probabilmente aperto il varco nel corso dei secoli; e infatti oggi una larga breccia spezza in due la catena gessosa, un tempo ininterrotto sbarramento e probabile diga (alla stretta di Borgo Rivola). Va da sé che l'intero corpo selenitico emiliano-romagnolo rappresenta un unico insieme, e singolare, di elementi naturali e culturali. Ad altri, più qualificati per competenza, si conviene la trattazione delle caratteristiche geomorfologiche. Lo stesso vale per gli aspetti naturalistici, oggetto di approfonditi studi. Viceversa, fermo restando che il valore culturale dei gessi si stempera in quello naturale, occorre dire che a tutt'oggi manca un quadro d'insieme storicamente ordinato, in grado di raccordare la presenza dell'uomo all'area dei gessi, segnalandone i rapporti di scambio reciproco. Pertanto, la nostra sintesi intende ripercorrere in chiave storica le vicende umane che hanno avuto luogo nella regione, seguirne l'evoluzione antropica marcando le trasformazioni scolpite nella Vena gessosa, siano esse rivolgimenti di lungo che di breve periodo. La cronologia si snoda attraverso millenni e secoli. Muove dalle più antiche testimonianze, preziose fonti che ci documentano l'esistenza di uomini cacciatori-raccoglitori, e termina con la storia recente dei nostri giorni: quella dell'uomo tecnologico cui va riconosciuto il potere di modificare l'assetto del territorio, non di rado secondo strategie irreversibili assai poco razionali. La presenza dell'uomo dalla preistoria all'età dei Ferro Alcune considerazioni sul Paleolitico valgono quale premessa alla più articolata esposizione del Mesolitico. Il termine Paleolitico indica un lungo periodo di tempo, di parecchi millenni, che si calcola abbia inizio circa 200.000 anni prima di Cristo e termine tra il 10.000 e l'8000 a. C. Viene distinto in inferiore, medio e superiore sulla base delle industrie umane, cioè delle tecniche usate nella lavorazione degli strumenti in pietra. Ogni sua fase è caratterizzata dalla pietra scheggiata, mai levigata, questa essendo tipica del periodo neolitico. Il Paleolitico è riccamente documentato in Emilia-Romagna, per esempio nella zona sub-collinare bolognese e imolese, con maggior concentrazione nell'area compresa tra il Reno e il Santerno. Qui sono le stazioni da cui provengono non pochi manufatti, reperti sporadici dei periodi abbevilliano, acheuleano e clactoniano antico (industrie caratteristiche del Paleolitico inferiore). Ai Gessi bolognesi, altopiano di Croara innanzitutto, risalgono le prime schegge litiche del periodo musteriano (prima metà dell'ultima glaciazione, Wurm), recuperate da Luigi Fantini nel 1927. Scontata l'importanza dell'evento. Furono infatti quelli i primi oggetti di industria musteriana reperiti sull'intero territorio emiliano: due piccole amigdale, di sobria fattura, trovate a Casa delle Donne e in località Due Pozzi, presso Pizzocalvo. Fantini estese allora le esplorazioni nelle aree vicine, nei dintorni gessosi di Farneto, Pizzocalvo, Castel de' Britti: i sopralluoghi ebbero ulteriori riscontri, portando alla luce altro materiale siliceo di età musteriana. E' a questo punto possibile stabilire - si chiede Ferraresi - se la giacitura di punte e raschiatoi musteriani sui terrazzamenti del basso Zena e nelle doline dell'altopiano gessoso della Croara sia davvero primaria?" Deduzioni di carattere geologico guidano la risposta dell'autore verso una cauta affermazione: "specie per l'altipiano gessoso: il raschiatoio musteriano rinvenuto all'interno della grotta della Spipola (o Pispola) ed i manufatti, peraltro fluitati, raccolti... lungo il corso sotterraneo dell'Acqua Fredda provengono certamente dalla zona della Croara Miserazzano, e confermano un popolamento quanto meno sporadico dell'altopiano gessoso durante il Paleolitico medio" (4). Nel 1949, sistematiche ricerche tra la ghiaie terrazzate agli sbocchi delle vallate del Savena, della Zena e Quaderna, del Sillaro consentirono a Fantini di recuperare manufatti in ftanite clacto-abbevilliano (5) . Dalle fornaci imolesi sono poi scaturiti reperti musteriani e materiale siliceo del Paleolitico superiore. Inoltre, "corna di cervo, zanne di cinghiale, e numerosi ossami, fra i quali apparvero identíficabili resti di bovini e ovini" (6). Il Paleolitico superiore si conferma nella fattispecie il più povero di tracce: e infatti gli unici materiali ad esso ascrivibili sono quelli in selce e osso rinvenuti in un inghiottitoio fossile nei paraggi di Croara, in associazione a fauna pleistocenica tipica dei climi freddi. Purtroppo l'interessante successione stratigrafica - che partiva da livelli datati, con il ricorso all'analisi del Carbonio radioattivo, ad oltre diciottomila anni or sono - è andata distrutta con il procedere dei lavori di una cava di gesso" (7). L'economia dei gruppi umani paleolitici è basata sulla raccolta dei prodotti spontanei, sulla caccia e sulla pesca; si tratta di un'economia passiva, perlomeno nel senso di una non-produzione di cibo. Le loro abitazioni sono capanne all'aperto, ripari sottoroccia, entrate delle grotte (8). Dimore temporali, non fisse. E' importante notare che mentre il ritrovamento dei manufatti basta per ricostruire l'evoluzione delle tipologie e tecniche di lavorazione impiegate (ma ombre restano sulle loro specifiche funzioni), i rinvenimenti non lo sono per decifrare il problema delle culture paleolitiche. Perché i manufatti, anche se numerosi, documentano tutt'al più presenze e aree di diffusione, ma non risolvono il problema del rapporto tra uomo e ambiente (habitat). In alcuni casi si tratta di materiali di provenienza alluvionale e dunque rimossi, fluitati rispetto alla primitiva giacitura. In aggiunta, una seconda ragione - chiarita da Mansuelli - ci sconsigliava di inquadrare la ricerca a partire dal Paleolitico: per la dubbia attendibilità del periodo rispetto a una storia del popolamento e delle tendenze insediative dei gruppi umani, essendo la cultura espressa nelle comunità di cacciatori-raccoglitori legata (ma in che misura è difficile dirlo) alle condizioni ambientali geofisiche e floro-faunistiche (9). In un loro comune lavoro, Mansuelli e Scarani appoggiano l'ipotesi che vuole l'Emilia avvantaggiata come area di insediamento rispetto alle pianure subalpine per la maggiore distanza dalle "vicinissime propaggini glaciali". Ed è altresì loro opinione che la circostanza possa aver contribuito a fare dell'Emilia un "centro di interessanti movimenti etnici, determinati dal lento trasferimento delle faune verso il grande termoregolatore mediterraneo" (10). I reperti paleolitici dell'area imolese (in gran parte provenienti dagli scavi Scarabelli), non essendo associati a resti antropici, non hanno aperto spazi per la formulazione di ipotesi relative all'insediamento umano. Mentre l'alta percentuale di densità dei reperti ha indotto gli studiosi (qui ci riferiamo a Mansuelli) a escludere l'ipotesi di un nomadismo di ampio raggio, in linea con l'indirizzo degli studi archeologici attuali che rilevano la mancanza di contatti e scambi con altre aree del paleolitico italiano. Recentemente, si è ipotizzato un nomadismo trasversale in probabile dipendenza da esigenze di transumanza venatoria (11). Addensamenti umani e tendenze insediative dal Mesolitico Alcune notazioni sul clima, seppur generalissime, supportano il discorso inerente le testimonianze antropiche databili al Mesolitico italiano, cioè al periodo nominato della "pietra di mezzo" per la sua collocazione intermedia tra le età del Paleolitico (della "pietra antica") e del Neolitico (della "pietra nuova"). Le informazioni sul clima ci provengono dagli studiosi di altre discipline, geologi e paleobotanici innanzitutto. Il Mesolitico italiano si situa all'incirca tra gli 8.000 e i 4.500 anni avanti Cristo. Rispetto al passato, è un periodo di transizione, di profonda evoluzione climatica: hanno termine le glaciazioni proprie del Paleolitico, cui subentra l'evoluzione verso un clima più temperato caratterizzato dai miglioramenti della fase Atlantica, nonostante il persistere di variazioni climatiche: il clima è caldo-umido, poi fresco-secco, e di nuovo caldo-umido, con Optimum termico attorno al 5.000 a.C. In questo rinnovato quadro ambientale - scrive Vai - ha origine la "prima radicale rivoluzione culturale: l'uomo (e soprattutto la donna fra i due sessi) impara a raccogliere i frutti spontanei", scopre la riva di bacini fluviali e palustri come nuovo spazio sociale, in alternativa alle praterie, i luoghi della caccia grossa dell'uomo paleolitico (12). Enormi sono le conseguenze della rivoluzione ecologica rispetto al passato. In sostituzione delle grandi mandrie in migrazione al nord, il cacciatore mesolitico insegue prede di taglia più piccola, cinghiali, cervi, volpi, conigli, lepri. La conquista della riva significa miglioramento dell'igiene alimentare e della dieta. Nel caso di acque salmastre, poi, il sale è, per così dire, il primo condimento di cibi lavati, tra cui molluschi marini e lumache sono l'ultima scoperta. Nei confronti del territorio, il rapporto si fa meno predatorio. Per quanto riguarda gli insediamenti - lo si accennava poco sopra - i ritrovamenti di alto crinale e quelli piuttosto diffusi ai margini collinari hanno condotto all'ipotesi di un'acquisita mobilità trasversale all'Appennino da parte dell'uomo Mesolitico, vuoi per ragioni di transumanza venatoria, vuoi di raccolta di selce (13), di cui è ricca la Vena del Gesso e dalla quale provengono numerosi manufatti anche delle epoche successive. A titolo di esempio ricordiamo la cuspide di freccia in selce bianca rinvenuta a Persolino di Faenza. Il materiale è del tipo sito in località Crivellari presso Borgo Rivola, sulla Vena gessosa romagnola. Che lo sfruttamento della selce del luogo fosse intenso, e che i locali prodotti migrassero in altre aree romagnole, si evince dalle peculiarità del materiale di cui sono tipiche la colorazione opaca e la scabrosità (14). A conclusione di questa breve panoramica sul Mesolitico, ricordiamo che, l'aver intensificato la raccolta dei vegetali spontanei grazie a soggiorni prolungati in uno stesso luogo, può aver indotto ad una maggior territorialità e insieme all'arricchimento del patrimonio di conoscenze degli uomini, e soprattutto delle donne mesolitiche, producendo una relativa sedentarietà dei gruppi, utile per penetrare i misteriosi cicli della vegetazione e per avviare le comunità verso il successivo stanziamento del periodo neolitico (15). Tendenze insediative del Neolitico Il Neolitico italiano (che cronologicamente di situa tra il 4500 e il 2500 a.C.) identifica un periodo di radicali trasformazioni, non di rado in laboratorio fin dal Mesolitico: scoperta dell'agricoltura e dell'allevamento, forte sviluppo nell'arte ceramica, riorganizzazione dell'assetto sociale e abitativo. In contrapposizione al Mesolitico - che aveva conosciuto la sola pietra scheggiata - i gruppi umani neolitici vantano, in termini di litotecnica, la levigatura della selce nella produzione degli utensili, levigatura che si affiancò, senza sostituirla, alla più antica tecnica di lavorazione della scheggiatura; quest'ultima infatti sopravvisse fino alle soglie dell'epoca storica, secondo forme estetiche sempre più raffinate. Tante radicali trasformazioni investirono sia l'economia sia l'organizzazione sociale dei nuclei neolitici. E infatti una prima trama della demografia regionale in Emilia-Romagna data al Neolitico, pur nella persistenza di una ridotta documentazione per il periodo nel bolognese e soprattutto in Romagna (16). Come ha avuto occasione di scrivere Mansuelli, "la presenza di tracce di abitato nelle valli interne (Secchia, Reno, Senio, Lamone, Savio) indica la frequentazione dei bacini fluviali e individua già, rispetto alla fascia pedemontana, una sorta di struttura a pettine" (17). Di recente poi, altro dato eloquente, si è supposta l'esistenza di un collegamento tra la valle della Sieve e la Pianura Padana, ipotizzando nella valle del Senio, attorno al IV millennio a.C., la probabile direttrice di collegamento tra le due (18). Sicuramente neolitica è la stazione di Riolo Terme nella valle del Senio. Essa si iscrive nell'orizzonte culturale di Fiorano, il più antico tra quelli caratteristici del Neolitico e per ora l'unico documentato nella Romagna occidentale. Recente e importantissimo, perché pienamente ascrivibile al periodo in un'area - la Romagna - di rarissima documentazione, è la stazione neolitica di Vecchiazzano, presso Forlì, nella Romagna orientale. Qui gli scavi hanno portato alla luce "ossa, carboni, probabili tracce di acciottolato e resti fittili "Ceramica del vaso a bocca quadrata" (circa 4000-3500 a. Cr.) e della "Cultura di Diana" (circa 3500-3000 a. Cr.)". Grazie ai rinvenimenti, opera di Gian Franco Piretti, la Cultura del 'Vaso a bocca quadrata" viene documentata, ed è la prima volta, anche in Romagna (19). Una più circostanziata idea della rarità dei reperti neolitici in Emilia-Romagna, a partire dalle valli imolesi e faentina, apprezza una variante. Il fatto che parecchi reperti, inizialmente classificati come neolitici, sulla scorta di più accurate indagini si sono rivelati essere di orizzonti culturali posteriori, spesso eneolitici. Abbiamo detto che l'economia neolitica è contraddistinta dallo sviluppo dell'agricoltura. E' tempo di precisare che ciò non può dirsi provato in Emilia-Romagna durante il periodo più antico del Neolitico, alla luce degli scarsi residui paleobotanici e in assenza delle caratteristiche macine (20). Una conferma indiretta di ciò sta nella distribuzione topografica degli insediamenti, che predilige siti di medio-alta collina e valli fluviali; tendenza che proietterebbe l'opzione delle genti neolitiche nel quadro di un'economia pastorale vincolata all'abbondanza di acque e pascoli (21). L'agricoltura si diffuse per gradi nel corso del Neolitico medio e superiore, complice il miglioramento climatico. Con il passaggio all'agricoltura, il sistema insediativo si orientò verso la progressiva stabilizzazione delle sedi umane. Le dimore sono in gran parte capanne dal fondo o appena o profondamente scavato, sovente "ricoperte con rami o cannucce spesso intonacati con argilla che il fuoco ha concotto e di cui si conservano quindi i frustuli commisti ai resti del vasellame in terracotta (un altro portato della rivoluzione neolitica) e ad utensili in selce scheggiata per lo più di piccole dimensioni, lame, raschiatoi, bulini" (22). Resti intatti di un largo fondo di capanna occupato quasi completamente da un grosso focolare" - come del resto altre tracce di probabile insediamento neolitico, nei vicini dintorni - provengono dalla frazione bolognese di Gaibola ubicata sui gessi messiniani a mezzogiorno di Bologna (23). Per quanto concerne il Neolitico in Val di Zena,"la più consistente traccia... proviene dalla località Boscopiano, sulla sinistra del torrente, quasi di fronte alla Grotta del Farneto: secondo le testimonianze del Malavolti... nella sezione praticata da una cava di gesso si raccolsero 'materiali latici, resti faunistici in cattivo stato e spoglie di molluschi'" (24) . Rari sono anche i reperti sporadici raccolti qua e là nell'altopiano gessoso di Croara-Miserazzano: in tutto, qualche scheggia litica e "frammenti di ceramica rozza provenienti dal podere Miserazzano" (25). Eneolitico e sviluppo insediativo lungo le valli nei Gessi bolognesi -romagnoli. La cultura di Remedello a Borgo Rivola Il termine Eneolitico denomina la prima fase caratterizzata dalla lavorazione dei metalli (in Italia corrisponde al periodo che va dal 2500 al 1800 a. C.) cui si accompagnarono il lento cambiamento dell'economia e della società del mondo antico e insieme l'affermazione di nuove culture, diverse tra loro, eppure riconducibili ad una matrice comune (26). Durante l'Eneolitico, nell'Italia settentrionale, fiorì la cultura di Remedello, mentre contemporaneamente l'Eneolitico si sviluppava nell'Italia centrale. E' anzi probabile che l'Appennino abbia finito per designare l'area di confluenza di orizzonti culturali in continuo contatto e rapporto tra loro attraverso vie commerciali, recuperando e continuando lo smercio di prodotti lungo tradizionali direttrici di scambio (forse avviate fin dal Neolitico); è il caso dell'ossidiana, di cui sono frequenti i rinvenimenti sporadici nel territorio di Bazzano e di S. Giovanni in Misileo, l'ultimo in località Casola Valsenio. Non essendo l'ossidiana un vetro naturale indigeno, si è ipotizzato - a spiegazione dei rinvenimenti locali - che l'Emilia-Romagna fosse territorio di contatto tra flussi commerciali del nord e sud d'Italia. Tra le probabili fonti italiane di rifornimento di ossidiana, risultano allora la Sardegna, Lipari, Pantelleria e Palmarola durante il tardo Eneolitico (mentre per lo più i nuclei esteri di provenienza di ossidiana vanno ricercati nel Mediterraneo orientale, in Anatolia, in Grecia, in Romania, in Ungheria) (27). Per quel che ci riguarda da vicino, la cultura eneolitica emiliana è ben documentata lungo tutta la Vena gessoso-solfifera emiliano-romagnola. Dal settore bolognese - funge da esempio la Grotta del Farneto a San Lazzaro di Savena - provengono industrie del tipo del Pescale (località presso Modena) entro il cui orizzonte si impone la cultura di Lagozza. E forse proprio il Pescale - privo di datazione cronometrica - ha costituito il punto di contatto con la cultura di Lagozza, influenzandola. E' comunque la cultura di Remedello che caratterizza l'Eneolitico nell'Italia settentrionale. Si forma nella valle del Po, aggiungendo alle già praticate agricoltura, caccia, pesca l'industria del metallo e forme rudimentali di commercio (28). Ricchissima di reperti è tutta l'area che include l'altopiano gessoso di Croara-Miserazzano e la Val di Zena, Grotta e sottoroccia del Farneto in testa. Essa testimonia "una penetrazione della cultura remedelliana nell'alto e medio corso dello Zena, alla ricerca forse di collegamenti e di scambi con la vicina Toscana, ove nel terzo millennio avanti l'era volgare già era in atto lo sfruttamento del minerale di stagno e del rame per la fabbricazione dei primi -rari - oggetti in bronzo" (29). Per l'elenco preciso dei tanti oggetti provenienti dalle 19 stazioni di ritrovamento (15 fanno capo al croarese e 4 al complesso del Farneto) rinviamo al puntuale lavoro di Ferraresi da cui estrapoliamo il nominativo dei luoghi di lor sede. Tra Savena e Zena, troviamo: il Passo della Portazza; il ricco Podere Scornetta; le cave Ghelli; i poderi: S. Andrea, Ca' Rossa, Miserazzano; la dolina della Pispola; il Podere Casetto; Madonna dei Boschi; il Castello-Cava del Gesso; la Cava a filo; la Cava IECME; la dolina di Budriolo; le cave del Boscopiano. Mentre a Farneto sono: i poderi Caivolino e Calanchi Cavaioni; Ca' delle Donne; Grotta di Coralupi (30). Più a lungo insistiamo, invece, sull'importante Grotta del Farneto, parte dell'omonimo "complesso trogloditico" comprendente il riparo sottoroccia del Farneto. Esso ha dato poco materiale osteologico che il Frassetto ha attribuito a tre distinti individui: uomo (vertebre cervicali, dorsali, sacrali; osso iliaco; parte di femore; fibula; alcune costole; parti di due temporali); donna (cranio completo; mandibola; diafisi dell'omero destro; osso iliaco destro; parecchie vertebre cervicali, alcune dorsali; resti di costole); bambino (piccola parte della mandibola angolare destra e del mascellare superiore) (31). Oggi il raffronto con la mancanza di ossa tra il materiale recuperato dall'Orsoni negli anni 1882-1888 lascia supporre non si tratti di sepolture intatte. Il che dà autonomamente spazio all'ipotesi di resti oggetto di riti funebri. In appoggio della quale sta un fatto: le ustioni (tracce) rinvenute sul cranio della donna. E ancora il tener in conto che i resti umani provengono tutti dallo strato culturale. Un parallelo scorre tra detti riti funebri e quelli attribuiti alla Tana della Mussina (provincia di Reggio Emilia) e - come vedremo - alla Tanaccia di Brisighella. Infatti, situazioni analoghe ricorrono in altre stazioni disseminate tra la Romagna e l'Appennino reggiano. Quali le possibili spiegazioni? Una prima ipotesi interpreta i dati come testimonianze di riti animistici volti alla distruzione, attraverso il cadavere, di spiriti maligni. Un'altra suppone si tratti di resti di cremazioni incompiute. Anche si pensa - ma con minor credito ogni volta che i reperti ustionati giacevano a debita distanza da tracce di grandi focolari, al Farneto come alla Tanaccia - a bruciature involontarie, causate da "fuochi accesi in prossimità di vecchie sepolture; o (da) fuochi accesi per celebrare banchetti funebri o per purificare l'ambiente dopo la morte di uno dei componenti il gruppo, ... o essere la testimonianza di riti inumani come l'antropofagia" (32). Giunti a questo punto sospendiamo il discorso che ci guiderebbe lontano. Perché l'esistenza o meno di riti antropofagici tra le popolazioni preistoriche locali è questione controversa, divide gli studiosi tra chi (per esempio, Capellini, Chierici, Degani) l'avvalora e chi, al contrario (Regalia, Carazzi), nega l'ipotesi. Completiamo di preferenza - sulla scorta del lavoro comune di Mansuelli e Scarani - il discorso relativo all'inumazione parziale il quale "è, senza alcuna eccezione, esclusivo delle cavità naturali. Comune alle stesse è pure l'accentuato frazionamento dei resti scheletrici, normalmente disseminati negli strati a cultura, in evidente promiscuità coi residui d'industria e le ossa dei bruti. Intenzionale, e completamente legata a manifestazioni magico-religiose, appare la conservazione dei crani e di loro parti staccare. Il che, come dimostrano i rinvenimenti della Tanaccia di Brisighella e del Farneto, vale sia per l'uomo che per gli animali" (33). Per la Grotta del Farneto si parla con certezza di un livello eneolitico - o forse del Bronzo incipiente. Problematico è invece cogliere i rapporti reciproci, gli eventuali collegamenti istituiti con i gruppi umani frequentatori del vicino sottoroccia del Farneto. Le difficoltà dipendono dalla mancanza di dati stratigrafici in entrambe le stazioni. Nutritissima è la serie di rinvenimenti frutto delle perlustrazioni nel riparo sottoroccia del Farneto, avviate dopo la scoperta del deposito nel 1924, con le prime indagini di Luigi Fantini. Sulla natura del deposito del sottoroccia non sembrano esserci perplessità: tutte le osservazioni, i dati acquisiti e le stesse peculiarità tipologiche dei materiali sembrano concordi sul fatto che la cavità fu adibita a sepolcreto" (34). Anche perché: "I resti scheletrici apparvero sempre in connessione diretta con suppellettili funebri e di uso comune. In particolare si possono ricordare le frecce litiche a ritocchi bifacciali, gli utensili in corno cervino, i frammenti fittili e i residui paleobotanici: grano, fava, ghianda" (35). Quattro sono le serie entro cui trovano collocazione i reperti trovati, documentati da Scarani. Sono: il gruppo costituito dal materiale in osso e corno. Quello comprendente gli ornamenti in conchiglie fossili. Il gruppo dei piccoli oggetti in rame. E infine quello delle industrie litiche e fittili. Per motivi di spazio, non passeremo in rassegna la lista dei tanti materiali trovati. Più brevemente diremo che al primo gruppo appartengono gli aghi ottenuti dalla difesa di cinghiali, i denti forati di canidi, le piccole spatole frutto della neolavorazione in corno di cervo, le zanne di cinghiale e di orso. Mentre tra gli oggetti ornamentali, spiccano le varietà Pectunculus, Cardium, Dentalium, "tutte note all'ambiente culturale di Remedello e dell'Eneolitico in genere" (36). Causa le ridotte testimonianze in metallo, sorvoliamo sulla terza serie, direttamente passando all'ultima relativa alle industrie litiche e fittili. Davvero ingente è il numero di raschiatoi in selce, di cuspidi di freccia e in generale di reperti in ftanite e selce, oltre ad un'interessante macina con macinello, che le sepolture neolitiche delle grotte liguri indicano come raccoglitori di oggettini (37). Nel caso del sottoroccia del Farneto, la cronologia relativa non dà adito a perplessità. Gli scheletri unitamente al materiale archeologico frammisto (in gran parte venuti alla luce dopo una frana del 1954 e negli anni 1969-70 in seguito ai crolli causati dallo scoppio di mine della cava di gesso) attestano tipologie eneolitiche. L'esame del Facchini sui reperti osteologici precisano trattarsi di "una quarantina di individui, in prevalenza giovani o giovanissimi (10 in età inferiore ai 10 anni, 8 tra i 10 ed i 18, 8 tra i 18 ed i 25, 14 fra i 25 ed i 40, uno solo in età avanzata); quanto al sesso, nove scheletri di adulti risulterebbero appartenere ad individui di sesso maschile, cinque a femmine" (38). Concludendo, tanto i materiali quanto i risultati funebri rimandano al livelli culturali espressi dal gruppo delle grotte tosco-emiliane "con attinenze più o meno specifiche nel settore ligure e nei coevi depositi della Francia mediterranea. Sensibili risultano anche gli apporti della cultura di Remedello" (39). A proposito di esempi liguri, è bene inserire un'informazione relativa all'analisi osteologica dei gruppi umani rinvenuti nella grande Grotta del Farneto. Senz'altro perché la diagnosi del Frassetto - cui ci si è riferiti in precedenza - "ha rilevato una conformazione peculiare all'ambiente etnico 'ligure"' (40). Durante l'Eneolitico, l'arte della produzione litica conosce forme raffinate ed eleganti. Due pugnali (l'uno raccolto in località Bosco del Querciolo, tra Idice e Zena; l'altro proveniente dal podere Calari sito in Croara di San Lazzaro di Savena) si impongono per la sobria estetica derivata dall'accuratissimo lavoro lamellare su entrambe le facce". Non lontano dal Bosco del Querciolo, nei poderi Campori e Ca' di Bazzone, si sono rispettivamente trovati cuspidi di freccia del tipo a mandorla e un martello litico. "Del resto tutto il settore di bassa collina ai due lati del Savena, è interessato da una fitta rete di rinvenimenti e non mancano tracce concrete di stanziamenti dell'epoca in argomento". Una tomba di tarda fase eneolitica, con parti di scheletro deposte sul fianco sinistro e con direzione est-ovest, è venuta alla luce nell'insediamento di Colunga, presso S. Lazzaro di Savena (41). Qui la continuità di abitato tra Eneolitico e incipienti fasi del Bronzo sembra da ritenersi probabile. Forse anche perché è tutta l'area bolognese indicata a testimoniare l'orizzonte eneolitico. E' oggi interamente disperso - se non fosse "per una sola e bella cuspide di freccia" - il materiale rinvenuto a Ponte d'Idice, aggiunti i frammenti fittili recuperati a Pizzocalvo nei poderi Ca' delle Donne e Gallette e quelli di accetta e martello litici, tratti dal podere Vezzano di Sopra, presso Gorgognano località prospiciente il bacino del Torrente Zena (42). In complesso, l'addensarsi dei rinvenimenti nell'area Miserazzano - Croara - Farneto è attribuita dallo Scarani ad una probabile "frequenza periodica da parte dei gruppi pastorali provenienti dai vicinissimi centri di insediamento" individuati nella Grotta del Farneto, l'insediamento contrapposto di Boscopiano e l'abitato a fondi di capanne di Ponte d'Idice… Quanto alla definizione di "gruppi pastorali va rilevato come la relativa frequenza di asce e frammenti di asce liriche meglio si colleghi con la presenza di una "agricoltura alla zappa" in cui tale tipo di utensile, immanicato trasversalmente sul palco di cervo o bastone conservante una biforcazione alla base, trova naturale impiego appunto quale "zappa" (43). Certo è che gli incavi naturali dell'altopiano gessoso di Croara-Miserazzano e del Farneto offrivano un comodo riparo ai gruppi umani eneolitici; "ed il terreno per l'azione igrofíla della masse gessose si presentava particolarmente fertile e dissodabile (44). Concludiamo la nostra veloce panoramica sull'Eneolitico caratteristico dell'area gessosa bolognese con un reperto: un vaso dell'età in oggetto, recuperato nella grotta di fianco alla Chiesa di Gaibola. Il sito è lo stesso luogo già sede documentata di un abitato in grotta, databile alla fase iniziale del Neolitico. Il vaso, di rozza ceramica e di grosso spessore, conteneva "poca argilla, frammista alla quale vi erano frammenti di scheletro di pipistrello e alcuni piccoli carboni", rivelatisi alle analisi di legno di quercia (45). Meritevole di nota è pure il fatto che nella sala dov'era posto il vaso e in quell'attigua (entrambe si trovano all'interno di un complesso di gallerie e di cunicoli sotterranei selenitici) "vennero individuate chiazze rotonde di gesso imbiancato dal fuoco sui soffitti delle mensole, carboni e argilla cotta nel piano sottostante e corrispondente. Le dimensioni delle macchie di gesso cotto farebbero pensare non a grandi fuochi, ma a torce per illuminazione" (46). Pure la cultura eneolitica è ben documentata nel versante romagnolo della Vena gessosa. Lo attesta la stazione di Borgo Rivola nella media valle del Senio, come del resto le regioni limitrofe al circondario imolese. In un'area piuttosto circoscritta, sono venuti alla luce numerosi reperti eneolitici, una quantità di materiali di non facile valutazione, vuoi per il gran numero e le diverse tipologie, vuoi per la localizzazione topografica dei reperti (47). L'Emilia rappresenta il fronte più meridionale di diffusione della facies di Remedello (oggi "Gruppo padano"), la cultura che si avvalse di apporti esterni, come nel caso della lavorazione del metallo di provenienza egeo-anatolica. Il materiale scavato nell'imolese mette in luce sostanziali differenze rispetto a quello recuperato nell'Emilia occidentale, area in cui gli abitati e le necropoli eneolitiche sono di notevole consistenza. A Borgo Rivola, invece, la cultura indicata è documentata solamente attraverso un piccolo gruppo di tombe e una nutrita serie di reperti isolati o a gruppi (48). Fu durante i lavori per un tracciato stradale, che nel 1950 affiorarono tombe a inumazione con corredo funebre individuale formato da una lama di pugnale triangolare in rame, rinforzata da costolatura mediana. Tra gli oggetti rinvenuti ivi compresi quelli recuperati nel corso degli scavi successivi voluti dalla Sopraintendenza), era un'accetta piatta di rame, cuspidi litiche (in accordo regionale con i reperti dei corredi funebri, ritrovati nelle tombe di Bosco di Malta, dintorni di Sasso Marconi), punte di freccia in selce e con peduncolo ( 49). Il corpo di un inumato giaceva con orientamento nord-sud; la seconda tomba seguiva l'asse est-ovest. In un caso, la sepoltura era completata da un muretto a secco formato da ciottoli fluviali. Il dato viene riconnesso alle manifestazioni di tipo submegalitico (50). "Sembra pure che sia stata distrutta una zona di terreno nerastro, con elementi morfologici complessivi che potrebbero dirsi peculiari di un fondo di capanna" (51). Allargando lo sguardo d'insieme sull'area, così da includervi la fascia pedemontana e l'anfiteatro collinare prospiciente Imola, va segnalato come la distribuzione topografica dei reperti sporadici mostri una loro giacitura in prossimità dello sbocco del Santerno in pianura. La circostanza lascia inferire - visto l'elevato indice di frequentazione del bacino - si tratti di luoghi di ripetuto afflusso. Si sa che le attività commerciali non erano affatto sconosciute alle genti di Remedello, le quali hanno caratterizzato la loro economia grazie alla consociazione del commercio (e a loro si attribuisce la diffusione del vaso campaniforme) alle più tradizionali attività economiche, dell'agricoltura e della pastorizia. Ma in sé e per sé l'informazione non basta a modificare il quadro per la valle del Santerno: e cioè la mancanza di centri, di veri e propri agglomerati abitativi lungo il corso del Santerno, nonostante i rinvenimenti sporadici (52). Comprovano invece l'Eneolitico nell'area gessosa romagnola i depositi in Grotta della Tanaccia di Brisighella, sui quali torneremo al momento di affrontare la fase del neo-Eneolitico e del successivo passaggio all'età del Bronzo. Nel frattempo, al termine della rassegna sull'Eneolitico, ci è sembrato probante affiancare il dato topografico relativo all'alto addensamento abitativo lungo la fascia pedemontana e lungo i corsi dei fiumi Senio e Lamone -volendosi limitare alle valli che tagliano la fascia gessosa romagnola (ma il discorso vale su scala regionale anche per i fiumi Reno, Idice, Montone, Savio) - al dato climatico caratteristico del periodo che registra l'acme caldo del Subboreale (asciutto) e configura un periodo filofluviale ( 53) . Si tratta infatti dei due fattori (ecologico e topografico) maggiormente responsabili durante l'Eneolitico dei criteri di scelta dei luoghi di abitazione (54) . Non è questa la sede idonea a vagliare i tanti aspetti e le numerose ipotesi che accompagnano gli studiosi intenti a svelare i modi attraverso cui l'evoluzione dall'Eneolitico all'età del Bronzo si sia verificata. A titolo esemplificativo del loro poderoso lavoro, proponiamo l'ipotesi suggerita da Scarani: e cioè che il passaggio dall'Eneolitico al Bronzo antico (1800-1550 a.C.) sia avvenuto nel segno della continuità, sia che si sia trattato di sovrapposizione del Bronzo antico alla facies di Remedello, sia che, al contrario, tardo Eneolitico e Bronzo antico siano risultati coevi. La tesi Scarani, in sintesi, accentua il nodo dell'unità etnica tra neo-eneolitici e possessori della civiltà del Bronzo. La grande quantità dei reperti neo-eneolitici (l'uso del termine sostenuto da Malavolti viene riferito al pieno sviluppo della civiltà agricola) di provenienza imolese già configura modelli sociali superiori, ovvero forme aggregative più complesse, che fanno riferimento alla tribù e tendono verso economie stabili, anche se a lungo e per secoli sempre associate all'esercizio della caccia e della raccolta. Mentre complessivamente "la documentazione del neoEncolitico... non permette ancora di identificare una sicura distribuzione degli abitati... un punto fermo cronologico è stabilito dalle sepolture di Borgo Rivola per la presenza delle tipiche armi di rame, che sincronizzano questa stazione con la più nota di Remedello" (55). Nell'area immediatamente contigua alla Vena del Gesso, verso valle, erano state scoperte in associazione sepolture e capanne. L'area fu però manomessa, così che i frammenti di ceramica recuperati a Rivola nelle immediate vicinanze dell'unica tomba scavata regolarmente non ne hanno permesso l'attribuzione. L'impasto ceramico sembra riferibile al periodo del Bronzo (56). L'età del "tardo Eneolitico - prime manifestazioni del Bronzo" inquadra i reperti provenienti dagli scavi effettuati dallo Scarani nella Grotta della Tanaccia, presso Brisighella, negli anni 1955-56. E' fuori discussione l'importanza dei materiali archeologici qui recuperati: tra gli altri, ceramiche rozze di medio impasto e di qualità fine, doli, olette, orci, boccali, oggetti di rame e pietra ("i più organici e consistenti nel campo delle culture eneolitiche della nostra regione", per dirla con Scarani): il tutto associato a resti antropici di adulto e bambini. Due frammenti di calotte craniche giacevano insieme ad una tazzina di tipo polada, nella parete gessosa di una piccola grotta laterale. Ben difesa naturalmente, la Grotta della Tanaccia fu probabile rifugio di nuclei familiari contro belve, intemperie e altri uomini; così la sua storia fino a quando fu abbandonata a causa di ricorrenti frane, come sembra indiziare il ritrovamento di ossa umane sotto grossi macigni in posa di chi sia colpito di sorpresa, e il gran numero di frammenti di cocci di anfore (57). I dati metrici relativi alle ossa e agli arti rendono possibili le seguenti osservazioni: 1) che gli abitatori della Tanaccia erano di statura bassa o medio-bassa; 2) che avevano una solida struttura ossea (l'indice di robustezza per l'omero dà valori elevati, pari a 22,3; quello diafisario è di 88,3: un dato al di sopra della media riscontrata per le popolazioni preistoriche italiane, per le quali i valori medi oscillano tra il 76,8 e l'83,9), superiore a quella dei gruppi umani frequentatori del sottoroccia del Farneto (stazione localizzata nei Gessi bolognesi) e della serie neo-eneolitica italiana (58). L'aver messo a confronto i ritrovamenti della Tanaccia con quella di altri gruppi umani dell'area bologneseappenninica (Scarani) è servito a chiarire le affinità culturali esistenti tra gruppi eneolitici diversi (e in particolare per quanto riguarda gli abitatori della Grotta del Farneto), marcando l'interesse antropologico della prospettiva di ricerca. La coesistenza di varie direttrici di comunicazione e il flusso di relazioni commerciali che valicano gli Appennini ha un suo punto di forza nel fatto che in zone lontane (delle Marche, della Toscana e delle Prealpi) si siano rinvenuti materiali di tecnica affine. I collegamenti di aree tanto lontane sembrano circoscrivere in quella bolognese-imolese una zona di incontro di direttrici e di nuclei di popolamento, cerniera tra due sfere di cultura: la settentrionale, in raccordo con i movimenti culturali dell'Europa continentale; e l'arca investita dai flussi culturali dell'Europa marittima mediterranea (59). E' un contesto significativo, in larga parte responsabile dell'esplosione insediativa dell'età del Bronzo. Genti eneolitiche hanno presumibilmente abitato anche la Grotta del Re Tiberio e le altre cavità della "Vena del Gesso" nei dintorni di Monte Mauro. Sono infatti numerosi i rinvenimenti sporadici del tardo Eneolitico rinvenuti tra Sintria e Senio (Casola Valsenio) e in località Riolo Terme dove a Gallisterna si sono recuperati cuspidi di frecce (60). Nella Tana del Re Tiberio, ossa umane hanno avuto riscontro in tre differenti livelli. Mentre si è ipotizzato lo sconvolgimento per i due sovrastanti - superiore e intermedio -, è certa l'attribuzione all'età preistorica del livello inferiore, il più antico dei tre, a diretto contatto con le rocce di base; si inquadra nell'orizzonte eneolitico. A nostro avviso - ha scritto Scarani - anche per la Grotta del Re Tiberio si prospetta una situazione affine a quella delle altre cavità emiliano-romagnole, vale a dire che nei tempi più antichi essa servì per abitazione e per sepoltura, secondo un'abitudine diffusa tra i nostri gruppi preistorici del tardo Eneolitico. In seguito la grotta servi per abitazione e dal1a tarda età del Bronzo fino al periodo romano per manifestazioni d'indole religiosa (61). L'età del Bronzo e la prima età del Ferro L'arco di tempo formato dal Bronzo e dalla prima età del Ferro, si compone di cinque periodi, quattro dei quali aprono e chiudono l'età del Bronzo (tra il 1800 e il 900 a.C.) e uno, l'ultimo, sigla la prima età del Ferro (dal 900 al 550 a.C.). Alla più antica fase del Bronzo, si assegna la cultura di Polada di origine padana (anfiteatro morenico del Garda). Mentre la successiva del Bronzo medio (seconda metà del XVI fino al XIV secolo a.C.) accoglie diverse culture: la transpadana nel Veneto e Trentino; la terramare nell'Emilia occidentale; la civiltà appenninica nell'Emilia occidentale e con estremo limite nord nel Bolognese,- la subappenninica in Romagna. Una fitta trama di abitati dell'età del Bronzo medio-recente (1550-1100 a.C.) veste l'Emilia-Romagna a conferma di un suo intenso sviluppo demografico. Perlopiù pedemontani o localizzati in zone rialzate o lontane dai fiumi; talvolta, come insediamenti minori o stagionali, in zone di crinale o in grotta (62). Alcuni fattori sono maggiormente responsabili della situazione: sicuramente la geografia del luogo in stretto rapporto con l'orizzonte ecologico. La condizione ambientale ha promosso una fiorente economia agricola che si è avvalsa di una solida rete di traffici istituita tra i gruppi portatori delle diverse culture. Gli abitati tipici documentati nell'Emilia occidentale (le terramare) mancano per l'area bolognese e romagnola. Mentre è sicura la frequentazione delle grotte che si aprono nella "Vena del Gesso", tanto sul fronte romagnolo (Tanaccia di Brisighella, Grotta del Re Tiberio, quella dei Banditi nel Faentino), quanto emiliano (complesso del Farneto, Grotta Calindri). La cronologia fissata per il complesso del Farneto oscilla tra gli estremi dell'Eneolitico iniziale e all'altro polo della piena civiltà del Bronzo preappenninico. Le culture ivi documentate contemplano specifici orizzonti ascrivibili ai tipi Lagozza e Remedello-Polada. Per quanto riguarda le prime fasi del Bronzo appenninico sono emerse affinità con i centri della Padana superiore. Su di essa è poi cresciuta una cultura diversa dai tratti originali ma al contempo simili a quelli elaborati dalla cultura di Monte Castellaccio di Imola. Parallelo che ha indotto Scarani a incrociare i due orizzonti nell'unica cultura del tipo Farneto-Castellaccio, lo sviluppo della quale si sarebbe mantenuto equidistante e autonomo rispetto alle due altre "civiltà coeve e geograficamente contigue delle terramare ad occidente ed appenninica ad oriente" (63). In ossequio, evidentemente, a un parametro o stile di vita caratterizzato sul piano sociale da rigide forme di autonomia. In generale, altre affinità guidano agli insediamenti liguri e della Francia mediterranea, oltre al settore preistorico cui fanno capo le grotte marchigiane (64). Assodata è l'importanza delle Marche come area laboratorio, prima, poi come zona di esportazione di gruppi umani in possesso della suggestiva cultura appenninica. Con l'avvertenza che allo stato attuale degli studi, per la stazione del Farneto, "la seriazione stratigrafica pare concludersi superiormente con i livelli del medio Bronzo" (65). Scarsi e di poco conto sono i rinvenimenti metallici provenienti dal Farneto, mentre spicca la prestigiosa tecnica di lavorazione a ciottoli silicei dimezzati seppure in associazione alla più ricorrente e arcaica lavorazione di oggetti in ftanite (66). Lo stesso che si ha nella stazione di Monte Castellaccio. Alla luce degli scavi, si apprezza pertanto l'ipotesi Ferraresi circa il fatto che "la maggior parte degli utensili doveva essere costituita, anche per gli uomini del Bronzo, da manufatti litici di piccole e medie dimensioni" (67). Tra le varietà paleontologiche testimoniate nel complesso trogloditico del Farneto troviamo sia animali comuni: maiale, pecora e capra, cane e bue; sia animali selvatici: cinghiale, capriolo, cervo (prede appetite), lupo, orso. Di estremo interesse sono inoltre i residui vegetali, composti in gran parte di ghiande, e poi grano e favette (le ultime provengono dai livelli stratigrafici più alti (68), eloquente testimonianza delle vocazioni agrarie preprotostoriche nell'altopiano gessoso di Croara Miserazzano. Evidentemente - il rimando è a Ferraresi - "L'equa ripartizione tra semi spontanei (ghiande) e coltivati, ribadisce il quadro di un'economia naturale a carattere misto, che integrava i prodotti di un'agricoltura rudimentale e dell'allevamento con il ricorso sistematico alla raccolta dei frutti selvatici, la caccia e probabilmente la pesca" (69). Ricca di testimonianze è dunque la Val di Zena. E non solamente per il complesso del Farneto. Lo fronteggia, anzi, sulla sinistra del medesimo torrente, un secondo insediamento datato alla fase iniziale o media del Bronzo. Al tardo appenninico risale, poi, il villaggio di fondi di capanna di Castel de' Britti. Da lì provengono resti di animali dei tipi domestici: bue, pecora, maiale, cane, cervo; oltre a pochi materiali fittili. Ma l'insediamento preistorico è stato integralmente distrutto dai lavori della cava di gesso inclusa nell'area di interesse archeologico" (70). Sintetizzando i dati inerenti la prima età del Bronzo in Emilia, Mansuelli e Scarani hanno insistito - oltre che sulla omogeneità dei livelli espressi - sulla necessità di ancorarla ai precedenti "sostrati di tipo eneolitico" dai quali ha attinto linfa (71). Tuttavia, non è soltanto la prima facies del Bronzo, la preappenninica, che nel Bolognese "appare strutturalmente organica e ottimamente documentata" (72) . La Grotta Calindri che si apre nella dolina di Budriolo, per esempio, grazie ai carboncini residui di un ampio focolare, pare rialzi la propria cronologia alle fasi medie e finali del Bronzo. Passando al tratto romagnolo della "Vena gessosa", va detto che la Tanaccia, probabile luogo di sepoltura e di abitazione, ha restituito insieme alle indubbie ceramiche dell'orizzonte di Polada, altre del tipo Lagozza, tazze e bicchieri monoansati nella tipologia di Asciano. Alcuni pezzi di ceramica presentano un tipo di decorazione che risente dell'influenza e della tecnica del vaso campaniforme (73). Documentano altresì la presenza dell'uomo negli antri della "Vena" le "vaschette" incavate nelle grotte di Re Tiberio e dei Banditi. Si tratta di nicchie simili, ma con ogni probabilità realizzate per soddisfare scopi differenti. L'esistenza delle "vaschette" fu sottoposta all'attenzione degli archeologi dal naturalista imolese Scarabelli nel 1872, in seguito all'esplorazione della Grotta del Re Tiberio. Le nicchie, dieci in tutto e di varie dimensioni, servirono probabilmente come ripostigli per utensili domestici (il rilievo è dello stesso Scarabelli). Due di loro poi - se ne soppesi la novità - funsero da abbeveratoi essendo "opportunamente scavati al di sotto di una piccola vena d'acqua sgorgante da una fessura della volta della caverna" (74). Né va dimenticato che la Tana del Re Tiberio fu sede di pratiche di culto rivolte a divinità delle acque salutari; e ciò fin dal Bronzo. Come lascia inferire sia la gran quantità rinvenuta di piccoli vasetti votivi, sia le tracce di ocra (a cui tradizionalmente si sposano caratteri rituali), di colore rosso e giallo, ognuna accertata nei livelli più antichi della grotta da Veggiani (75). La sua frequentazione in epoca storica è avvalorata dai resti di cibo recuperati. I rifiuti potrebbero identificare offerte rituali connesse al culto delle acque, come indiziano due fatti: il rinvenimento di stipi votive, e l'alto numero di vasetti fittili votivi, databili all'età del Bronzo e addensati in una zona ristretta della caverna; il cranio di capra recuperato nel 1962 insieme alle altre ossa di animali trovate in condizioni frammentarie negli anni '70-'7l. Da ultimo l'ipotesi trae credito dalle stesse "vaschette", cui sono associati gradoni, probabili sedute, che portano fino al soffitto della caverna (76). Passando ora alla Grotta dei Banditi, già il De Gasperi (che per primo la esplorò nel 1912) rivelò la presenza di una nicchia, anche se di più di una si tratta. Data la loro posizione (sono sì scavate a differenti livelli, ma le diverse altezze si corrispondono sui lati opposti della caverna) si è immaginato fossero tacche per il fermo di pali da porre trasversalmente all'imbocco della cavità, e sui quali fissare pelli come protezione contro il freddo. L'intuizione è di Bentini e si inquadra nella frequentazione della grotta a partire dal Bronzo antico e protratta fino al Bronzo finale sempre per scopi abitativi. L'ipotesi è suffragata dalla serie di focolari contenenti ingenti quantità di vasellame e di resti di pasti (77). E' nota l'esistenza di vaschette in altre piccole grotte (tra cui quella forse preistorica a sud della Chiesa di Sasso Letroso; la Grotta della Colombaia, le due a sud di Ca' Cavulla nei pressi di Brisighella e le due cavità naturali a nord di Castelnuovo); le tralasciamo, di loro al momento essendo sconosciuta la datazione (78). Insistiamo invece sul fatto che non poche grotte site nei Gessi emiliano-romagnoli durante il Bronzo finale sono rimaste interessate da crolli ripetuti e frequenti durante il Bronzo finale. Lungo la Vena gessosa romagnola: la Grotta dei Banditi, la Tanaccia, la Grotta di Re Tiberio. Nella Vena bolognese: la Grotta e il sottoroccia del Farneto, la Grotta Calindri, il Buco dei Buoi. Dunque, calamità naturali hanno indotto le popolazioni preistoriche a disertarle nell'età del Bronzo finale; cosi come, nelle epoche successive, la loro frequentazione è stata saltuaria. Le frane e i crolli del Bronzo finale vanno attribuiti a due fattori concomitanti, l'uno geologico, l'altro climatico. Rispetto al primo contano le caratteristiche carsiche della zona, la catena gessosa essendo soggetta alla soluzione causata dalle acque (si veda il capitolo sul Carsismo) (79). D'altro canto, il fattore climatico determinò un peggioramento delle condizioni ambientali (coincide con l'acme del periodo freddo e conferma le tendenze antifluviali già avviate nel corso del Bronzo recente) (80). Ciò produsse l'abbandono degli insediamenti lungo i fiumi. Del resto, la tendenza ha caratteristiche generali: colpisce, infatti, tanto le terramare quanto i villaggi subappenninici delle aree bolognese e romagnola. Manchiamo ancora di una spiegazione plausibile del fatto (81). Certo è invece, per tutta la regione, il forte recesso demografico, in aperto contrasto con il popolamento dell'epoca successiva, l'età del Ferro. Scorrendo in rassegna i dati sul popolamento dell'intero periodo, e in aggancio alla consistenza demografica dell'Emilia-Romagna nel periodo iniziale del Bronzo (XIX-XVI secolo a.C.), va detto che gli indici di densità sono piuttosto bassi e concomitanti a tendenze antifluviali (82). La media età del Bronzo (1550-1300 a.C.) presenta condizioni climatiche migliori, propizie alla crescita della vegetazione; se ne avvantaggia la pastorizia e, presumibilmente, riflessi positivi si ripercuotono sulle condizioni generali dell'economia, segnatamente nell'hinterland bolognese che vede fiorire la cultura terramaricola. Contemporaneamente, è verosimile abbia avuto luogo un peggioramento della situazione nell'Appennino Emiliano in ragione di un'eccessiva distanza dai poli principali di sviluppo e, coerentemente, con la tendenza all'accentramento insediativo e allo stanziamento in pianura (Mansuelli); con la crisi aperta dal lento penetrare della cultura appenninica (83). In questi secoli la base dell'economia resta l'agricoltura - fiorente nell'area pedemontana in associazione alla migliore congiuntura ecologica e integrata dall'allevamento, che tra i gruppi agricoli stabili indica selezione controllata di varietà diverse di razze bovine, ovine, caprine, equine e suine. La penetrazione massiccia etnica e culturale della civiltà appenninica risale alla fase finale del Bronzo sia per il Bolognese che per la Romagna (84). In questa cornice di sviluppo delle culture appenniniche, la pastorizia svolge un ruolo economico fondamentale così che, tra le attività delle genti enee, preminente era la transumanza. "Le caratteristiche degli insediamenti appenninici ... rivelano una struttura sociale costituita da seminomadi che attesero all'agricoltura come ad una produzione complementare" (85). Ed ecco allora che durante la transumanza i ricoveri in grotte e caverne erano particolarmente ricercati. Potevano configurare sia villaggi veri e propri che stanziamenti all'aperto come luogo di raccolta o sosta. Per Mansuelli non è da escludere che la Grotta del Re Tiberio (come la Panighina presso Bertinoro) fosse luogo di convegno anche per i differenti gruppi tribali (86). Indirizza in tal senso - se ne parlava più sopra - l'utilizzo nella grotta, come fossero due abbeveratoi, delle due "vaschette" poste al di sotto della falda da cui sgorga l'acqua. Qualcosa di simile si ha pure nei Gessi bolognesi. Dove la Grotta del Farneto, a poche decine di metri dal Torrente Zena, dà alibi all'ipotesi che le caverne naturali siano state riscoperte nell'ottica di un'economia pastorale e in ragione della doppia loro funzione, di ricoveri e di abbeveratoi, se in prossimità di fonti d'acqua (87). L'economia si avvaleva in misura notevole della raccolta di vegetali selvatici, così che "corniole, nocciole, mandorle, prugne, susine e ciliege selvatiche integravano il settore dell'alimentazione" (88). Sempre nell'ambito della cultura appenninica, la caccia affiancava l'economia agro-pastorale. Il dato è suggerito dall'industria delle ossa, documentata da numerosi manufatti. Come tendenza complessiva, il Bronzo medio iniziale è poco documentato. Anche là dove i rilievi stratigrafici sono più consistenti - per esempio nelle Grotte Farneto e Calíndri, Tanaccia, dei Banditi, lungo la Vena emiliano-romagnola - il salto indicato porta dal Bronzo antico a quello tardo (89). Perché, infatti, nel corso del Bronzo recente (tra il XIII e il XII secolo a.C.), il ritorno di condizioni climatiche di tipo sub-continentale profila un riequilibrio tra attività dei campi e pastorizia, del quale sono indizio gli insediamenti in pianura anziché in collina (90). Con lo sviluppo della cultura subappenninica del Bronzo recente si delinea una vera e propria colonizzazione, e ciò in raccordo con l'incremento demografico suffragato dagli insediamenti dislocati all'interno delle vallate. Sulla base del quadro che siamo venuti fin qui tracciando, l'età del Bronzo si caratterizza allora come un periodo dalla struttura complessa e articolata. Ne è un valido esempio l'ipotesi di Radmilli, secondo il quale - la sintesi è di Bentini - "L'economia mista dei subappenninici portò alla costituzione di aree territoriali di proprietà di alcune comunità, nelle quali aveva luogo la transumanza stagionale necessaria per una completa nutrizione delle greggi, con la conseguente concentrazione di stanziamenti fissi e di stazioni all'aperto o in grotta (come ad esempio nella Grotta del Farneto)" (91). Con gli enei cambia forma lo sfruttamento dei tipici antri gessosi. Rispetto al passato, ora la frequentazione delle caverne non corrisponde più a semplici esigenze logistiche. E piuttosto rientra nelle maglie della loro, articolata, organizzazione economico-sociale. In scia con Mansuelli, è lecito parlare "di sensibilità topografica delle comunità enee". Tant'è che la radiografia del territorio scattata prima e dopo la decadenza e rarefazione demografica di Toscanella di Imola - ineccepibile quartiere industriale e centro specializzato nella lavorazione dei metalli - risulta scandita dall'esistenza di un variegato sistema produttivo fatto di centri specialistici; dall'articolato dinamismo dell'apparato economico (stante i rivolgimenti topografici innescati dalla progressiva gerarchizzazione del territorio); dalla disarticolazione che asseconda l'addensamento demografico in nuclei gravitanti attorno al centro di Bologna. Schematizzando un'ultima volta, è ipotizzabile sia esistito un assetto produttivo - in fase di pieno sviluppo della civiltà subappenninica - di questo tipo: da una parte Bologna in posizione geografico-commerciale strategica, polo "naturale" di attrazione di gruppi etnici. Convince nell'insieme l'ipotesi che una maggior facilità di approvvigionamento per i metallurgici locali abbia causato l'involuzione di Toscanella (Mansuelli-Scarani). Dall'altra parte, l'esistenza di aree periferiche decentrate, autonome sul versante produttivo. Quest'ultimo è infatti l'ambito entro cui si spiega - e su basi economiche prevalentemente silvo-pastorali - lo stanziamento nelle grotte gessose della Vena emiliano-romagnola. E' appena il caso di ricordare che nella stessa Grotta del Farneto sono venuti alla luce oggetti metallici. Nondimeno, per la loro modesta consistenza, si è pensato siano da escludere vere e proprie attività fusorie da parte degli abitanti della grotta (92). A partire dal IX secolo a.C., nella penisola italiana si afferma la civiltà del Ferro e, per quanto concerne l'Emilia-Romagna, si diffonde la cultura villanoviana, che all'incirca perdura fino alla prima metà del VI secolo a.C. Il periodo è connotato da un sicuro sviluppo demografico e insediativo, che per intensità e tipologia sparsa ricorda quello dell'epoca eneolitica, in netto contrasto con l'età del Bronzo per il quale è comprovata l'esistenza di grossi agglomerati (Toscanella, Prevosta, Castellaccio). Abbastanza poco si conosce e si può dire del periodo indicato, in rapporto alla catena selenitica, malgrado il considerevole incremento demografico. Come vedremo tra breve, fanno eccezione Borgo Tossignano, il sito a ridosso della Vena, e di riflesso il medio bacino del Santerno. Forse il borgo sopravvisse come "nucleo minimo produttivo" in forza del retrostante complesso produttivo che ingloba la fascia gessosa che interseca la valle. Eppure resta difficile istituire specifici collegamenti di tipo sia sociale che economico tra la Vena e lo sviluppo della civiltà villanoviana. Ancor oggi si tenta di capire quanto le aree contermini fossero tributarie al bolognese durante questa età. Tutto, o quasi, pare facesse i conti con Bologna. Così l'assetto economico sembra si plasmasse a partire dalla dinamica produttiva di Bologna. Ad est di Imola le conoscenze sono scarse. E la valle del Senio ha dato solo sporadici rinvenimenti in corrispondenza dei banchi gessosi. Non resta in esame che il circondario imolese. Qui attorno, probabilmente, le genti villanoviane hanno conservato l'autonomia produttiva nell'agricoltura, settore nevralgico della produzione per almeno due fattori: innanzitutto la demografia sparsa, che è sintomo di attaccamento alla terra (93). Poi, in rapporto al primo e come secondo elemento, va apprezzato il bisogno di azzerare il negativo della bilancia dei pagamenti dovuto all'importazione dei metalli (sappiamo che il Villanoviano è periodo contrassegnato dall'industria dei metalli), e s'intuisce come: evidentemente, tramite l'esportazione di prodotti alimentari. Le stesse necropoli scavate nella valle del Santerno lasciano supporre un orizzonte economico tributario al Bolognese per l'approvvigionamento metallico (94). Alla decadenza dei grandi centri addensati tipici del Bronzo e perlopiù ubicati in pianura e nelle basse colline, si affianca piuttosto la conservazione dei nuclei abitativi nelle medie valli, come a Borgo Tossignano, sul Santerno, il più cospicuo insediamento villanoviano, parametro per la salvaguardia dei complessi produttivi montani legati all'economia del bosco e del pascolo. La Vena gessosa si profila così come fronte naturale di separazione, di cerniera, al contempo, tra due aree economiche produttivamente diverse. A valle della fascia gessosa troviamo la vivace economia del bacino imolese contraddistinto da un intenso sfruttamento agricolo, per una parte almeno indotto dall'assetto economico del bolognese, che risulta plasmato dal mercato e dall'integrazione dei vari settori produttivi. A monte della catena gessosa, persiste invece l'economia silvo-pastorale, dove allevamento e caccia sono le attività preminenti, in un quadro di ridotta evoluzione sociale interna. Naturale cerniera tra le due zone in quanto limite periferico di entrambe, il centro di Borgo Tossignano, importante polo storico della Vena, è stato in grado di sopravvivere come nucleo economico attivo, eludendo la grande crisi che colpì i grossi borghi. Come tendenza generale, infatti, si deve parlare di assetto demografico sparso sulla bassa collina. Ed è evento importante, perché prefigura la distribuzione economica per ville e casali propria del periodo romano. Senza dimenticare che la rarefazione demografica ha congiurato nel determinare la mancata difesa dei luoghi, da parte delle loro genti, di fronte all'avanzata dei Celti (95). Opere citate (1) P. Zangheri - "La stretta di Rivola. Il suo lago e i suoi "relitti", estratto da "La Pié", Fo, 1949, fasc. 9 pag. 221. (2) F. Ricci Lucchi - G.B. Vai, "La Vena del Gesso: una "emergenza", ma in che senso?", estratto dal volume "Pagine di vita e storia imolesi", Imola, 1983, p. l. (3) P. Zangheri, Flora e vegetazione della fascia gessoso-calcarea del basso Appennino romagnolo, Fo, 1959, pp. 3-6. (4) P. Ferraresi, "La Valle di Zena nella preistoria", in "Il Carrobbio", I, 1975, p. 154. (5) L. Fantini, "Il Paleolitico pliocenico della regione bolognese ed imolese", in AA.VV, Emilia preromana, Mo, 1964, pp. 471-497. (6) Mansuelli-Scarani, "Il Paleolitico", in Mansuelli-Scarani, L'Emilia prima dei Romani, Mi, 1961, pp. 35-36. (7) P. Ferraresi, "La Valle di Zena nella preistoria", cit., p. 154. (8) G. Bermond-Montanari, "La preistoria fino all'età del Bronzo", in AA.VV. Storia dell'Emilia Romagna, Bo, 1976, p. 41. (9) G.A. Mansuelli, "Profilo geografico e culturale dell'Emilia preromana", in AA.VV., Storia dell'Emilia Romagna, op. cit., p. 21. (10) Mansuelli-Scarani, "Il Paleolitico", in op. cit., pp. 33-34. (11) Per un confronto, si vedano: G.A. Mansuelli, "Profilo geografico e culturale dell'Emilia preromana", in op. cit., pp. 21-22 e G.B. Vai, "Un fiume per la gente? Il Santerno e gli insediamenti umani ad una svolta tra passato e futuro", estratto dal volume "Pagine di vita e storia imolesi", Imola, 1986, là dove l'autore discute l'ipotesi di Cremaschi, p. 134. (12) G.B. Vai, -Un fiume per la gente? cit., p. 134. (13) L'ipotesi di Cremaschi di un nomadismo indotto dagli spostamenti di animali, oltreché da Vai (cfr. nota 11), è pure discussa da L, Bentini, "Rinvenimenti di età pre-protostorica nei dintorni di Palazzuolo nell'alta valle del Senio, in "Studi Romagnoli", 1981, p. 32. Si consideri, per esempio, che un'antica mulattiera, seguendo la linea di cresta, collega le vallate del Senio e del Lamone. Ora, in quest'area, sono state rinvenute alcune lamette, forse mesolitiche. Per l'informazione, cfr. L. Bentini, "Rinvenimenti di età pre-protostorica", cit., p. 30. (14) L. Bentini, "Manufatti preistorici litici ed in osso rinvenuti in Romagna", in "StudiRomagnoli", 1970, p. 305. (15) Le considerazioni qui svolte muovono in parte dalle osservazioni di L. Bentini, "Rinvenimenti pre-protostorici…"cit., pp. 30-34. (16) G.A. Mansuelli, "Profilo geografico e culturale dell'Emilia preromana", in op. cit., pp. 22-23. (17) G.A. Mansuelli, "Profilo geografico e culturale dell'Emilia preromana", cit., pp. 21-23. (18) L. Bentini, "Rinvenimenti di età pre-protostorica cit., p. 34. (19) Per la citazione, si rimanda a: S. Marabini, R. Lenaz e G.B. Vai, "Pleistocene superiore e Olocene del margine pedeappenninico romagnolo", Bo, 1987, p. 33. (20) G.A. Mansuelli - R. Scarani, "L'Emilia prima dei Romani", op. cit., p. 42. (21) Ibid. (22) P. Ferraresi, "La Valle di Zena nella preistoria", cit., p. 156, (23) G.A. Mansuelli - R. Scarani, "L'Emilia prima dei Romani", op. cit., p. 42. (24) P. Ferraresi, "La Valle di Zena nella preistoria", cit., p. 156. (25) Ibid. (26) G. Bermond - Montanari, "La preistoria fino all'età del Bronzo", in op. cit., p. 50 (27) Cfr.: Mansuelli - Scarani, "L'Eneolitico", in op. cit., p. 71; e inoltre, L. Bentini "Manufatti preistorici litici ed in osso rinvenuti in Romagna", cit., p. 309. (28) P. Ferraresi, "La Valle di Zena nella preistoria", cit., p. 156. (29) Ibid., p. 158. (30) Ibid. (31) R. Scarani, "Sui riti funebri della preistoria emiliano-romagnola", in AA.VV., Emilia preromana, op. cit., pp. 187-188. (32) Ibid., pp. 242-243 (33) Mansuelli - Scarani, op. cit., p. 86. (34) R. Scarani, "Sui riti funebri della preistoria emiliano-romagnola", in op. cit., p. 175. (35) Mansuelli - Scarani, "L'Eneolitico", in op. cit., pp. 78-79. (36) R. Scarani, "Sui riti funebri della preistoria emiliano-romagnola", in op. cit., p. 179. (37) Ibid., p. 187. (38) P. Ferraresi, "La Valle di Zena nella preistoria", cit., p. 160. (39) Mansuelli - Scarani, op. cit., pp. 89-90. (40) Ibid., p. 78. (41) Per le informazioni e relative citazioni si rimanda a Mansuelli-Scarani, op. cit., p. 82. (42) Ibid., pp. 100-101. (43) P. Ferraresi, "La Valle di Zena nella preistoria", cit., p. 158. (44) Ibid., p. 162. (45) M. Bertolani, "Notizie sul ritrovamento di un vaso preistorico in una grotta delle colline bolognesi", in: AA.VV, Emilia preromana, op. cit., pp. 273-282. (46) Ibid., p. 281. (47) R. Scarani, "Sviluppo delle culture pre-protostoriche nel territorio imolese" in "Studi Romagnoli", p. 152. (48) Ibid.. (49) R. Scarani, "Sui riti funebri della preistoria emiliano-romagnola", in op. cit., pp. 139-254. (50) Mansuelli - Scarani, op. cit., pp. 81-82 e cfr. p. 85. (51) Ibid. (52) Ibid., p. 97. (53) G.B. Vai, "Un fiume per la gente?", cit., p. 135. (54) R. Scarani, "Sviluppo delle culture pre-prostoriche nel territorio imolese", cit., p. 153. (55) Mancini - Mansuelli - Susini, "Lo sviluppo della cultura fino all'età del Bronzo", in Imola nell'antichità, Roma, 1957, pp. 68-69. (56) Ibid., p. 77. (57) Il resoconto di Mornig è citato in "Nuove interessanti scoperte nelle profonde grotte di Brisighella", in "Il Resto del Carlino", 12 agosto 1953. (58) Facchini, "Osservazioni sui resti scheletrici della Tanaccia di Brisighella (Ra)", in "Studi Etruschi", Istituto di studi Etruschi ed Italici, Olschki, Fi, 1964, pp. 143-155. (59) Mancini - Mansuelli - Susini, "Lo sviluppo della cultura fino all'età del Bronzo", in: Imola nell'antichità, op. cit., p. 69. (60) Mansuelli - Scarani, "L'Eneolitico", in op. cit., pp. 96-97 (61) R. Scarani, "Sui riti funebri della preistoria emiliano-romagnola", in: AA.VV, Emilia preromana, op. cit., p. 195. (62) G.B. Vai, "Un fiume per la gente?", cit., p. 136. (63) P. Ferraresi, "La Valle di Zena nella preistoria", cit., p. 162; lo stesso per un confronto intorno all'ipotesi avanzata da Scarani. (64) Mansuelli - Scarani, op. cit., p. 136. (65) P. Ferraresi,"LaValle di Zena" cit., p. 162. (66) Mansuelli - Scarani, op. cit., p. 137. (67) P. Ferraresi, "La Valle di Zena" cit., p. 162. (68) Mansuelli - Scarani, op. cit. (69) P. Ferraresi, "La Val di Zena nella preistoria". cit. p. 163. (70) Mansuelli - Scarani, op. cit., p. 134. (71) Ibid., p. 140. (72) Ib id., p. 124. (73) G. Bermond - Montanari,"La preistoria fino all'età del Bronzo", in op. cit., p. 55. (74) L. Bentini, "Note preliminari sulle 'vaschette' rupestri nella Vena del Gesso romagnola", in AA.VV, Archeologia tra Senio e Santerno-Atti del convegno tenutosi a Solarolo il 19 Novembre 1983, p. 28. (75) Mansuelli - Scarani, op. cit., p. 217. (76) L. Bentini, "Le ultime scoperte paletnologiche nella Grotta di Re Tiberio", Memoria X della Rassegna Speleologica Italiana "Atti del VII Convegno Speleologico dell'Emilia-Romagna e del Simposio di Studi sulla Grotta del Farneto, p. 195. (77) L. Bentini, "Note preliminari...", p. 29 (78) Ibid., p. 39 e seg. (79) Ricordiamo con Mansuelli che il ripetersi di frane ha avuto l'effetto di alterare le tracce archeologiche. Sul tema, cfr.: G.A. Mansuelli, "Lineamenti antropogeografici dell'Emilia e Romagna dalla preistoria alla romanizzazione", in "Studi Romagnoli", 1963, p. 119. (80) G.B.Vai, "Un fiume per la gente?", cit., p. 136 (81) AA.VV., "La formazione della città in Emilia Romagna - Prime esperienze urbane attraverso nuove scoperte archeologiche", (a cura di G. Bermond Montanari), II, Bo, 1987, p. 3. (82) G.B. Vai, "Un fiume per la gente?", cit., p. 136. (83) Con la formula "cultura appenninica" il Rellini intese distinguere la civiltà del Bronzo sviluppatasi lungo la dorsale appenninica dall'altra coeva, delle terramare, diffusa nell'Italia occidentale. "Terramare" è parola che discende da "terra marna", la ricca e scura terra impiegata nel secolo scorso per la concimazione dei terreni. (84) Mansuelli - Scarani, op. cit., p. 168. (85) M. Reale, "Recensioni", in AA.VV, Emilia preromana, op. cit., p. 571. (86) Mansuelli, "Lineamenti antropogeografici" cit., p. 133. (87) L'ipotesi di Pugliesi è recensita da M. Reale in: AA.VV, Emilia preromana, op. cit., p. 574. (88) Mansuelli - Scarani, op. cit., p. 163. (89) L. Bentini, "Insediarnenti della tarda età del Bronzo nel Faentino", in "Studi Romagnoli", 1977, p. 117. (90) Ibid., p. 120. (91) L'ipotesi di Radmilli è appunto discussa da Bentini. Pertanto: ibid., p. 143. (92) Mansuelli - Scarani, op. cit., p. 175 (93) Mansuelli, 'Uneamenti antropogeografici cit., p. 137. (94) Ibid. (95) Mancini - Mansuelli - Susini, "La genesi di Forum Cornelii", in: Imola nell'antichità, op. cit., pp. 95-99. |
Speleo GAM Mezzano (RA)