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Regione Emilia Romagna; Assessorato Pianificazione e Ambiente, Collana naturalistica - La Vena del Gesso - 1974 |
CIVILTA' ETRUSCA, CELTICA E ROMANA: PROFILO GEO-STORICO |
Susanna Raccagni |
E oggi improbabile, allo stato attuale degli studi, di poter inquadrare autonomamente la Vena gessosa nel sistema di riferimento della cultura etrusca, o se si preferisce di ricostruire i rapporti di influenza reciproca. Tuttavia, qualche vantaggio conoscitivo può derivare dall'esame delle aree contermini alla micro-regione gessosa. Per questa strada, dal quadro d'insieme sarà lecito dedurre il possibile e forse probabile assetto dell'area, fatta salva la consapevolezza che di congetture si tratta fino a quando non siano verificate sul campo attraverso studi specifici. Ricapitolando in breve, sappiamo che fino all'età del Bronzo la Vena gessosa è rimasta interessata da economie silvo-pastorali. Per quanto lo sfruttamento di alcuni antri da parte delle genti enee - si sono visti i casi delle grotte del Farneto e del Re Tiberio - stigmatizzasse una certa sensibilità topografica, si restava comunque al di qua della costruzione di un passaggio agrario vero e proprio, nel senso in cui ne ha parlato Sereni, ossia di una forma deliberatamente impressa dall'uomo al paesaggio naturale per fini produttivi stabiliti (1). Se come sembra certo gli Etruschi hanno viaggiato lungo le linee commerciali esistenti, motivo per cui la loro espansione - e non conquista - ha assunto i contorni di un "controllo esercitato sulle risorse economiche e sulle vie commerciali da una minoranza dotata di una cultura e di una organizzazione superiori" (2), è probabile che il sistema produttivo nell'area gessosa non abbia subito alterazioni e che la cultura etrusca abbia conservato, o persino avvalorato, le risorse esistenti senza imprimere un'intensa trasformazione al paesaggio naturale di questa zona. Forse in questi secoli, paesaggio agrario e paesaggio naturale hanno ancora coinciso. Se così è stato, il perfezionamento della cultura subappenninica dedita alla pastorizia, ancorché integrata dalle attività di allevamento (alpeggio e monticazione regolata compresi), non ha modificato granché i precedenti assetti territoriali, noi crediamo preservando le forme del paesaggio naturale lungo la Vena gessosa. Si guardi l'ubicazione delle stazioni archeologiche di Marzabotto, Felsina, Spina, i tre vertici cardine dello sviluppo etrusco: la scelta dei luoghi in cui hanno edificato le loro città non ha toccato da vicino la fascia gessosa, neanche nel Bolognese. Quando poi l'occupazione celtica (le prime tribù arrivano nella Pianura Padana intorno alla fine del VI secolo a.C.) siglò la crisi del processo di urbanizzazione in atto presso gli Etruschi e la fine della loro organizzazione produttiva (improntata alla complementarietà dei settori produttivi, al forte credito di cui godevano i settori specialistici della produzione artigianale, all'esistenza di grandi mercati) (3), non si aprì un periodo di stasi produttiva e di congiuntura economica del tutto negativa: una realtà probabile se al contrario gli Etruschi avessero effettivamente destrutturato le tradizionali forme economiche delle locali culture subappenniniche. Mentre durante l'invasione celtica, vi è la tendenza a valorizzare le risorse esistenti sul territorio. Un esempio probante è dato dall'allevamento, importante fattore economico della tradizione locale, che si consolida sotto i Celti. I Galli Insubri sono stati grandi allevatori e produttori di suini. In questo caso, l'uso delle risorse locali ha assecondato, più che alterato, le vocazioni "agrarie" della fascia gessosa. L'abbondanza dei querceti d'alto fusto (la Quercus pubescens, altrimenti nota come quercia roverella, cresce bene sui terreni calcarei) facilitava naturalmente lo sviluppo degli allevamenti suini. Attraverso la neo-valorizzazione delle economie preesistenti, le tribù celtiche hanno finito per cementare l'età del Ferro e il successivo periodo romano iscrivendoli sotto il segno della continuità, del costante sviluppo dell'allevamento. In questi secoli, l'economia montana è varia: allevamento significa produzione di latticini e carni, di pelli; c'è poi l'industria del legno: sono tante attività che, tutte assieme, hanno conferito stabilità all'economia della zona senza alterare le forme del paesaggio naturale. Durante l'invasione celtica, il medio bacino del Santerno (ed è probabile che il discorso sia estensibile alla stessa area gessosa bolognese, visto che i Galli Boi hanno sfruttato Bologna) viveva in un entroterra produttivamente definito da fiorenti economie agricolo-pastorali, senzaché di appoderamento vero e proprio - stabile - si possa parlare. L'ipotesi si apprezza nel caso romagnolo, alla luce di avvenimenti successivi come la fondazione di Imola, Foro Corneliensi, intorno al II secolo a.C. E' infatti verosimile ritenere che l'area compresa tra le medie valli del Savio e del Santerno, la pianura e le prime propaggini collinari delimitate dalla Vena gessosa, andasse incontro al rafforzamento produttivo di economie esistenti fin dall'età del Ferro allorché - se ne è già parlato - Borgo Tossignano fiorì come borgo di afflusso delle merci prodotte nell'entroterra, centro di gravitazione nella valle. Passando al popolamento, la presenza celtica è scarsamente documentata nell'intera regione: mancano reperti relativi a insediamenti abitativi ed i toponimi celtici non investono i grandi agglomerati bensì i centri minori o gli idronomi, un segno marcato della rarefazione insediativa. I dati archeologici provengono dai sepolcreti, l'unica fonte disponibile. Alla periferia della Vena gessosa, in Romagna, la necropoli di Casola Valsenio: non abbastanza per documentare una storia del popolamento celtico agli estremi della catena gessosa. I Romani arrivarono in Emilia-Romagna nel III secolo a.C. e consolidarono la loro presenza dopo che la battaglia del Sentino (295 a.C.) pose fine ai ricorrenti conflitti tra Sanniti, Umbri, Etruschi, Galli e Piceni. Tuttavia è soprattutto nel corso del secolo seguente che l'occupazione romana radica nella Cispadana, avviando consistenti riforme agricole-insediative. Fino a quel punto i Romani si adattarono alle strutture preesistenti -assecondandone l'impianto - o, viceversa, determinare con quale grado di intensità rinnovarono i precedenti moduli insediativi, è difficile a dirsi. Certo è che affiorano le novità: -vengono dedotte le colonie di Bologna, Modena e Parma, sistemata la via Emilia e continuata la suddivisione del territorio secondo i principi della centuriazione" (4), vale a dire: regolare ripartizione del suolo agricolo extra-urbano attraverso un sistema geometrico originato dall'intersezione tangibile di due rette perpendicolari - il cardo, con direzione nord-sud, e il decumano da oriente ad occidente -, vere e proprie linee di confine e ad un tempo selettori della viabilità pubblica e vicinale (5). Li troviamo in funzione anche all'interno della città, come strumento di maggiore o minor valorizzazione di aree urbane, rigorosi poli per la gerarchizzazione stradale, con i decumani in posizione preminente e i cardini allineati per importanza al ruolo dei decumani minori, periferici (6) Sennonché si avverte il bisogno di meglio definire la cornice, l'intelaiatura che fa da sfondo ai due centralissimi eventi di questi secoli, i due ultimi dell'era precristiana: che sono la bonifica integrale della pianura e la riforma agraria. In quest'ottica serve saggiare le caratteristiche climatiche del periodo romano. Ricorda Vai che la storia che ebbe per protagoniste in Italia le popolazioni etrusca, umbra, celtica e romana "coincide con un periodo di difficile drenaggio" nel quadro di un lungo intervallo caldo-umido (7). Dato che la bonifica integrale quasi equivale alla scomparsa delle paludi e delle folte boscaglie sull'intero territorio, si è ragionevolmente ipotizzato un cambiamento nel clima, seppure in che misura sia oggi problematico dire (8). Mentre, fuor di discussione è il radicale sconvolgimento dell'habitat padano, in altre parole la prima profonda alterazione, in epoca storica, dell'ambiente naturale ad esclusiva opera dell'uomo. Va da sé che il processo della bonifica s'intreccia a sua volta con l'attuazione della riforma agraria. Essa, assecondandone le tipologie colturali, si innesta sull'organizzazione produttiva preesistente che in pianura, nel II secolo a.C., si imperniava su piccoli appezzamenti, per lo più coltivati a grano; ma anche a frutteto, con la vigna in rapida progressione; e con l'allevamento del bestiame in solido sviluppo (9). Ricorda Sereni, nella sua sempre attraente Storia del paesaggio agrario italiano, che "nella prima metà del II secolo a.C., per il vecchio Catone, il vigneto è ormai nella graduatoria delle colture, in testa a tutte le altre: e il vigneto come l'uliveto tipo, dei quali egli parla nel suo "De agri cultura" - con una superficie, rispettivamente, di 100 e di 240 iugeri - non sono già più dei piccoli arboreti familiari, con la conformazione del giardino mediterraneo, ma delle vere e proprie piantagioni, che impegnano una sempre più numerosa mano d'opera servile" (10). L'alta e medio-alta montagna conservano i moduli e l'organizzazione produttivi passati, di tipo silvo-pastorale. Le aree extraurbane bolognesi accolgono il "sistema della villa o dell'edificio rustico, tipici di strutture legate all'attività agricola" (11). Sia in pianura che in collina, Qui anzi il sistema penetra lungo le valli nell'area collinare (12). Analoga situazione alberga nel medio bacino del Santerno fino al margine della pianura areale che fu valorizzato dalla prima comparsa dei Romani. La consegna di questo spazio ai loro coloni risale probabilmente a dopo il 173 a. C., in un periodo di sicuro sviluppo economico del bacino collinare prospiciente la Vena del Gesso. A tal punto produttivo, da giustificare la fondazione di un forum (Imola) allo sbocco del Santerno in pianura (13), circostanza che si apprezza attraverso valutazioni archeologiche, come per esempio la mancanza di insediamenti massicci villanoviani o gallici, in numero sufficiente a retrodatare l'origine, vicenda che contribuisce a qualificarlo come forum romano. Per quanto riguarda la densità di popolamento, il passare dal piano delle congetture a quello delle cifre è intuibile nasconda parecchi rischi. E forse è impossibile. Tuttavia, vi è chi ha cercato di calcolare la densità del popolamento dell'area centuriata nei dintorni del territorio imolese, pressappoco tra Sillaro e Senio (14). Gli Autori hanno supposto alcuni fatti. Primo fra tutti, che l'assegnazione sia avvenuta tramite l'ager Gallicus nel 173 a.C. In questo caso, 10 iugeri di terra sarebbero toccati ad ogni cittadino romano e 3 ad ogni latino: nella zona si sarebbero allora insediati dai 10 ai 25 mila coloni. Se poi, seconda possibilità, il loro numero per centuria era inferiore, l'immigrazione avrebbe riguardato all'incirca 5 mila coloni: e nel complesso l'indice di densità si sarebbe mediamente attestato sui 10 abitanti per chilometro quadrato, con le variazioni dovute a "una densità ben maggiore nella pianura, rispetto alla montagna, e massima nell'area di alta pianura a settentrione del centro (Imola) e nella bassa collina a mezzogiorno" (15). In precedenza, fino all'età romana arcaica, tra le pratiche agronomiche più frequenti, sono da menzionare il debbio su foresta e su prato, oltre al cosiddetto sistema a campi ed erba. La prima tecnica era impiegata per liberare il suolo dalla vegetazione spontanea, arborea ed arbustiva nel primo caso, erbacea nel secondo. Fuoco e ceneri servivano per preparare il suolo alla coltivazione. Talvolta vi si associava un'approssimativa lavorazione, sfruttando la zappa (debbio a zappa) o l'aratro (debbio aratorio) (16). In epoca di centuriazione, si impone il sistema del maggese biennale: dopo un anno di coltura più accurata, ne subentra uno di riposo del suolo che viene lasciato al pascolo. Nell'Italia antica, con un'ampiezza e con un rigore senza precedenti nella colonizzazione greca ed etrusca, la conquista romana vien liquidando, fra le popolazioni sottomesse, i resti della costituzione gentilizia e di una economia comunitaria, che ancora avevano potuto conciliarsi col vecchio sistema agrario a campi ed erba; sviluppa e porta al suo culmine la potenza delle nuove forze produttive sociali, insite nel sistema del maggese e delle piantagioni arboree, alle quali ora pienamente si adeguano, coi rapporti di produzione, i rapporti di proprietà, giuridici e politici del maggiore fra gli Stati fondati, nell'antichità classica, sull'economia schiavistica" (17). Nella valle del Santerno (da Borgo Tossignano a Fontanelice) la documentazione dell'età romana è nettamente inferiore a quella che si ha per l'età del Ferro. Siamo in presenza di un vero e proprio crollo di testimonianze rispetto al passato. Archeologicamente, non è provata l'esistenza di un antecedente romano nel nucleo medioevale di Tossignano. Viceversa uno strato romano è comprovato nella Grotta del Re Tiberio e materiali sparsi sono dislocati qua e là nella zona, dove il reperto più importante è dato dalla necropoli gallica di Casola Valsenio. Di più. Le località archeologiche che fanno capo al territorio di Gallisterna (entro il quale spiccano le stazioni di Bosche, Gualdetto, Gualdo di Sotto, Ca' Baladello, Isola) sono state di recente segnalate (Rosini) come uno dei poli archeologici territoriali "suscettibili della valorizzazione sia dei siti che dei reperti". Infatti - ed è questa la conclusione di Rosini che a noi qui preme sottolineare - "l'area di "Gallisterna riveste interesse anche perché, forse più che in altre zone, vi si rilevano forme di stratificazione tra la civiltà eneolitica e quella romana. Quest'ultima ebbe tra Riolo e Brisighella l'ambito di massima affermazione rispetto al resto dell'area dei Gessi, ciò che permette di individuare altri potenziali complessi archeologici territoriali" (18). Nella valle del Lamone, una strada fungeva da asse di collegamento con la Toscana: lo documentano alcuni toponimi, Quartolo, Rio Quinto, Tho o Pieve in Ottavo (ognuno, probabilmente, costruito come: (ad) quartum/quintum/octavum (lapidem), Pontenovo (il nono miglio) (19). Nel Bolognese, grazie a quattro edifici rustici, si è di recente rinvenuto il tracciato dell'antica via Flaminia "minor", l'importante asse viario che a partire dal 187 a.C. allacciava Arezzo a Bologna "attraverso il Passo della Raticosa e lungo il crinale tra Idice e Sillaro, fino a Monterenzio vecchio" (20). Inoltre - prosegue Bermond-Montanari recuperando un'ipotesi di Dall'Aglio -: "viene anche ipotizzata l'esistenza di un "diverticulum" successivo, ma di età non precisabile, di tale via: esso avrebbe inizio nei pressi di Settefonti, al podere La torre e, seguendo il crinale tra Idice e Centonara, attraverserebbe Ciagnano e Castel de' Britti per raggiungere la via Emilia più vicino a Bologna. …Ciagnano è infatti toponimo prediale, ricollegato da studiosi a "Caenius", personale, e ricondotto all'area centro italica e più particolarmente al settore etrusco" (Dall'Aglio) (21). Qualcosa di assolutamente inedito scatta nel rapporto città campagna grazie all'imporsi del sistema a due campi (maggese biennale): è il successo del nuovo reticolato viario, poderale, vicinale, regionale (ed eventualmente interregionale) - e un esempio è la Flaminia "minor" - la cui struttura poderale, non è più abbandonata alla spontanea e labile incidenza delle correnti dei traffici e dei trasporti sulla consistenza del suolo, ma è bensì coscientemente preordinata e precostituita, ed è organicamente iscritta in un piano di colonizzazione urbanistica ed agraria: sicché, in questo sistema di una viabilità costruita, le correnti stesse dei traffici e dei trasporti finiscono col proiettarsi e con l'incidersi stabilmente al suolo, assumendo così una loro visibile ed obiettiva consistenza" (22). Di un periodo di decadenza si parla dopo l'età repubblicana, quando sullo scorcio dell'era volgare si colgono i sintomi del cambiamento. Anche se la depressione economica della seconda metà del I secolo e di quello seguente si è valutato non abbia duramente colpito la comunità di Imola, ad esclusione forse della montagna, (23) il quadro tracciato dagli autori ne coglie il mutamento in atto. Questa la comune sintesi: "assai spopolato l'alto e il medio bacino del Santerno e dei fiumi contermini, fittamente costellate di villae, abbastanza agiate le colline a mezzogiorno e la pianura tutt'intorno alla città, non molto popolata, comunque scarsamente popolata la bassa pianura" (24). In procinto di abbandonare il discorso sui legami esistenti in età romana tra sviluppo insediativo dell'uomo e tipologie dello sfruttamento agricolo, vale la pena di insistere su di un fatto: il ricorrere e il prevalere di tratti comuni che cementano storia dei Gessi bolognesi e romagnoli in una realtà per certi aspetti simile. Eppure, anche in età romana, la loro storia non è priva di diversità. Dove albergano e più s'insinuano le differenze tra i due tratti dei Gessi - bolognese e romagnolo -, è a proposito dello sfruttamento e dell'uso edilizio del materiale gessoso. Perché - ha chiarito Varani - "i Gessi bolognesi, in virtù forse della loro vicinanza all'area di insediamento fra Reno e Savena, entrano direttamente nella storia urbanistica della "Bononia" romana (mentre) la Vena romagnola, piuttosto distante dall'arteria pedemontana, la via Emilia, sembra non aver interessato l'impianto di opere urbane a Faventia e a Forum Cornelii" (25). Torna insomma alla ribalta, convalidandosi, l'ipotesi relativa all'impiego del gesso bolognese come uso abitativo in età romana. Sicuramente dopo il rinvenimento dell'enorme muro di via Porta Castello, a Bologna, "formato da grandi blocchi di selenite di età indiscutibilmente romana... muro largo oltre due metri e composto di blocchi regolari, perfettamente squadrati e di misure di norma multiple del piede romano (26). Grandi massi di selenite che in epoche successive sono stati a loro volta rimossi, e reimpiegati in altre opere edilizie (27). Opere citate (1) E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, 1962, p. 3. (2) Mansuelli - Scarani, op. cit., p. 247. (3) Mansuelli - Scarani, op. cit., p. 283. (4) G. Bermond - Montanari, C. Morigi Govi, R. Macellari, "Il catasto archeologico", in: Piano Territoriale del Parco Regionale dei Gessi Bolognesi e dei Calanchi dell'Abbadessa - Analisi preliminari alla redazione del Piano. Relazioni tematiche - Dicembre 1989, Provincia di Bologna, pp. 8-9. (5) E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari, Laterza, 1979, p. 47. (6) F. Bergonzoni, "Un contributo singolare alla conoscenza di Bologna romana: il grande muro ad opus quadratum di via Porta Castello", in: Atti e Memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna, 1969, ns XX, Anno Accademico 1969, p. 128 e segg. (7) G.B. Vai, "Un fiume per la gente? Il Santerno…" cit., p. 137. (8) G. Susini, "La Cispadana romana", in AA.VV, Storia dell'Emilia-Romagna, op. cit., p. 115. (9) Ibid., p. 116. (10) E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, op. cit., p. 56. (11) G. Bermond - Montanari, C. Morigi Govi, R. Macellari, "Il catasto…" cit., p. 8. (12) Ibid. (13) Mancini, Mansuelli, Susini, Imola nell'antichità, op. cit., p. 100. (14) Ibid., pp. 103-104. (15) Ibid., p. 104. (16) E. Sereni, "Agricoltura e mondo rurale", in AA.VV., I caratteri originali, vol. 1 della Storia d'Italia Einaudi, p. 142. (17) E. Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, op. cit., p. 50. (18) R. Rosini, "Il Parco regionale dei Gessi romagnoli", in "Autonomie locali-Ambiente". anno IV, n. 6. Giugno 1985, p. 35. (19) T.C.I., Guida d'Italia Emilia-Romagna, op. cit., p. 613. E per la ricostruzione toponomastica, cfr.: A. Polloni, Toponomastica romagnola, Fi, 1966, le voci menzionate. (20) Bermond - Montanari, Morigi Govi, Macellari, Il Catasto, cit., p. 9. (21) Ibid. (22) E. Sereni, Città e campagna, op. cit., p. 119. (23) Mancini, Mansuelli, Susini, Imola nell'antichità, op. cit. (24) Ibid., p. 107. (25) L. Varani, "Evoluzione dei rapporti uomo-ambiente nei gessi bolognesi e romagnoli", in Bollettino della Società Geografica Italiana, 1974, n. 7-12, p. 334. (26) F. Bergonzoni, "Un contributo singolare alla conoscenza di Bologna romana: il grande muro ad opus di via Porta Castello", cit.. p. 129. (27) Ibid., p. 135. |
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