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Regione Emilia Romagna; Assessorato Pianificazione e Ambiente, Collana naturalistica - La Vena del Gesso - 1974 | ||
FLORA E VEGETAZIONE Francesco Corbetta Prima di procedere ad una seppur sommaria descrizione della vegetazione della Vena del Gesso ed alla enucleazione ed evidenziazione delle specie floristicamente più importanti desidero sgombrare il campo da un possibile equivoco, spesso alimentato nel passato da errate o non sufficientemente probanti e meditate osservazioni. Alludo, subito, alla cosiddetta "gipsofília" della flora del gesso. Purtroppo, come ebbe esaurientemente a dimostrare il caro Prof. Pietro Zangheri, essa non esiste, contrariamente a quanto avviene, invece, da parte delle rocce serpentinose che, effettivamente, selezionano ed inducono non solo forme specifiche (le cosiddette "serpentinicole"), ma tali esclusivamente per le peculiari morfosi assunte (microfilia, ad esempio), ma anche ed addirittura specifici endemismi. La flora del gesso, purtroppo, non raggiunge questa "nobiltà" e si limita ad essere più o meno simile a quella delle zone calcaree, per tanti versi affini. Quindi ciò che caratterizza questa flora non è la specificità della natura gessosa del substrato, ma, sempre nell'ambito di una sostanziale basicità, la natura spiccatamente arida dello stesso, caratterizzata e propiziata dal fatto che la roccia gessosa, analogamente alla calcarea, ha ben scarse capacità di assorbimento e ritenzione delle precipitazioni idriche e ciò nemmeno quando esistono vistose e diffuse fratturazioni: anche in questo caso l'acqua percola rapidamente e si diffonde nel sottosuolo attivando sì importanti e spesso imponenti fenomeni geologici ma non arrecando alcun vantaggio alla riarsa e sitibonda flora in superficie. Quindi, in generale, se non provvedono (ma fortunatamente vi provvedono) le plastiche argille spesso intercalate tra i banchi gessosi, e se ci limitiamo alla roccia gessosa vera e propria, finisce per affermarsi una flora (e quindi una vegetazione) tipicamente xerofila e xeromorfa con tutti i conseguenti accorgimenti funzionali e adattamenti morfologici. In una pubblicazione divulgativa quale questa intende essere ritengo non sia fuori luogo accennare, ancora una volta, alla differenza che intercorre tra i due termini (anche se spesso confusi, ma assai impropriamente nel linguaggio comune) "flora" e "vegetazione". La "flora" è data dall'insieme di tutte le singole specie vegetali che crescono in una determinata zona ma prese in considerazione individualmente, ognuna per se stessa. La "vegetazione" prende invece in esame i rapporti che intercorrono reciprocamente tra le varie specie legate ad un certo tipo di ambiente con legami strettissimi che riguardano le possibilità di compresenza o meno, la successione temporale (innescando con ciò il fenomeno del dinamismo) e molti altri complessi fenomeni. Poiché, nella valutazione del valore di una qualsivoglia zona, lo studio della vegetazione offre una maggiore quantità di "informazioni" che non il semplice studio della flora, seguiremo il criterio di parlare degli aspetti botanici della Vena illustrando soprattutto la "vegetazione". Solo in appendice o incidentalmente accenneremo anche, nello specifico, a talune specie floristiche di importanza singolare. Come è ormai generalmente noto, lo studio della vegetazione è via via passato da connotati eminentemente descrittivi e solo fisionomici a connotati (supportati da adeguate tecniche di rilevamento - e, ancor più - di rielaborazione ed ordinamento delle stesse) maggiormente analitici. E' quanto si ottiene con il metodo cosiddetto "fitosociologico" che prevede una serie di rilevamenti effettuati in campagna, su superfici quanto più omogenee (scartando intuitivamente, le zone compromesse dalla presenza, che so, volta a volta di un ruscello o di un affioramento roccioso o di un ristagno d'acqua), elencando scrupolosamente (talora per "strati", fornendo così utili indicazioni sul tipo di struttura della cenosi vegetale) tutte le specie presenti ed attribuendo poi loro un valore convenzionale di "copertura" (vale a dire la percentuale di superficie ricoperta) e, talora, anche di "sociabilità", vale a dire la tendenza - o meno - che le specie hanno a crescere da sole o a formare cespi o chiazze sempre più estese. Tali rilevamenti vengono poi riordinati in laboratorio e riuniti in tabelle che possono essere convenientemente analizzate valutando la somiglianza dei singoli rilevamenti anche solo ad "occhio" (come si faceva un tempo) o ricorrendo, più modernamente, a sofisticate elaborazioni matematiche computerizzate. Per fortuna, però, nell'ambito dei Gessi la tipologia fisionomica coincide quasi sempre perfettamente con quei dati, più elaborati, ottenuti attraverso la analisi fitosociologica ed allora, nella breve descrizione che seguirà, ci riferiremo soprattutto alla tipologia fisionomica che è assai più immediatamente percettibile. E' una valutazione che viene detta anche speditiva proprio per la sua immediatezza di valutazione dei contenuti. Come criterio nella elencazione delle varie tipologie seguiremo allora quello di procedere per ambienti elencandoli in ordine di peculiarità (floristica e/o fisico-ecologica) della flora e della vegetazione presenti. Così facendo abbiamo anche il conforto di aderire maggiormente al monumentale lavoro di certosina pazienza, acuta intelligenza e di grande sensibilità naturalistica che il mai sufficientemente compianto e sempre caro Prof. Pietro Zangheri dedicò alla Vena nell'ambito della sua monumentale opera "Romagna fitogeografica". Anche se il Prof. Zangheri (e noi stessi in un nostro lavoro sull'argomento: cfr. Zanotti & Corbetta, 1983) non prendavamo in considerazione questo peculiare aspetto riteniamo che, in un contesto divulgativo come questo, sia opportuno stralciare dagli altri aspetti vegetazionali quello delle "rupi". Procederemo poi secondo i canoni più tradizionali con la descrizione di "pratelli" (o "gramineti") su sfatticcio di roccia; delle "garighe"; dei "boschi", variamente caratterizzati a seconda della esposizione e dell'intervento umano: non mancano nemmeno i castagneti da frutto a "bosco-parco" e, come ambiente secondario, tipicamente secondario (e cioè dovuto alla protetta azione umana), i "prati". I popolamenti rupicoli Ma ritorniamo alle "rocce". Per descrivere questo nobilissimo tipo di ambiente e gli interessantissimi popolamenti che ospita ci riferiremo ai (pochi) rilevamenti pubblicati in occasione del ritrovamento di una preziosa e leggiadra felce già (ma erroneamente, per fortuna) ritenuta estinta: Cheilanthes persica (Corbetta & Zanotti, 1981), (Fig. 1). A proposito della felce ritorneremo ancora, alla fine di questo breve scritto, con una "scheda floristica". Qui prendiamo invece in considerazione la vegetazione dell'asperrimo e assai selettivo ambiente di rupe, su roccia compatta, spesso esposta anche nei quadranti più soleggiati. Assai diverso è, infatti, questo tipo di ambiente a seconda della esposizione e l'aver cercato (a lume di naso) la felce di cui sopra - come il buonsenso suggeriva (ma a torto) - proprio sulle rupi più fresche, abbondantemente ammantate di soffici muschi, ritardò, e di molto, la riscoperta, finché un giorno... Ma di questo parleremo nella scheda in appendice. Vediamo allora dalla tabella pubblicata (Tab. 1) che - oltre alla preziosa Cheilanthes - non sono poi pochissime le specie che meglio si sono attrezzate per resistere in un così specifico e selettivo ambiente. Sono, volta a volta, specie che riescono a penetrare con poderosi apparati radicali in qualche fessura che incrina la roccia, come le specie che vedremo poi dominare nel meno selettivo ambiente di gariga e cioè, segnatamente, la fragrante Artemisia alba (nota anche come A. camphorata per gli aromatici sentori, appunto di canfora, che emanano le sue foglie se soffregate); l'altrettanto fragrante Helichrysum italicum; l'ispido Galium corrudifolium; Thymus striatus; Helianthemum apenninum; Stachys recta e poi quell'autentico, preziosissimo "bonsai" perfettamente naturale che è Fumana procumbens ( =Helianthemum fumana): un vero e proprio "alberello" in miniatura di pochi centimetri! Ma più tipiche di ambienti rupestri, come è evidenziato anche dalla categoria fitosociologica di appartenenza (Asplenietea rupestris; Asplenietalia glandulosi), sono un' altra Felce, comunissima e popolarissima, la Felce rugginosa (Ceterach offíiínarum) ed un frutice non privo anche di pregi ornamentali per le sue belle foglie assai lucide quale Teucrium flavum. Tutte le specie prima citate - e comuni alla gariga - hanno anche un autentico valore discriminante in senso fitosociologico in quanto specie caratteristiche di quelle entità che sono le classi Festuco-Bromata ed Onorido-Rosmarinetea . Obbediscono poi alle stesse strategie ecologiche anche le meno specifiche, in senso fitosociologico, Campanula sibirica, Erysimum sylvestre, Dianthus caryophyllus (il più diretto ed ancor più profumato progenitore dei garofani coltivati) e poi ancora Centaurea splendens ed il tomentosissimo, sempre suggestivo, quasi spinoso Onosma echioides con le sue caratteristiche infiorescenze proprio "da Borraginacea" qual è la "cima scorpioide" (Figg. 2 e 3)! Altre piante, significative dal punto di vista fitosociologico (come Sedum album) o no (come Sedum reflexum e S. telephium) hanno scelto, come via strategica di sopravvivenza, quella della appartenenza alle cosidette "crassulente" e sopravvivono infatti grazie alla capacità dei loro tessuti di ritenere acqua, mentre la piccola e graziosissima Saxifraga tridactylites (così come qualche altro Sedum pure annuo) ha scelto un' altra "strategia" oltre alle foglie pur sempre carnosette, è una "terofita" e passa quindi i lunghi mesi sfavorevoli (praticamente dall'Aprile in cui ha smesso di fiorire ed è morta fino alla primavera successiva) sotto forma del più resistente degli organi vegetali: il seme! A fine febbraio, poi, i semi di Saxifraga germinano e le minuscole pianticelle, nel breve volgere di poche settimane, crescono, fioriscono e fruttificano! Del tutto diverso è, invece, l'ambiente rupicolo ben protetto dai dardeggianti raggi del sole dei versanti esposti a nord e spesso gratificato dell'ulteriore ausilio del microclima sul fondo delle doline dove maggiore è sempre la umidità e la temperatura non raggiunge mai gli eccessi delle rocce esposte al sole. Qui l'aspetto della vegetazione è del tutto diverso e la copertura, rappresentata soprattutto da soffici tappeti muscinali, è completa. Sono poi abbondantemente presenti varie Felci (dalla già citata Ceterach a Polypodium australe, la cosiddetta Felce dolce per il presunto sapore dei rizomi ad Asplenium trichomanes, il Capelvenere falso) ed il carnosissimo Sedum telephium, perenne a fusti aerei annuali. Tutto sommato questo particolare ambiente delle rupi ombreggiate e fresche è così protettivo che, talora, vi si infila anche qualche clandestino, come il bellissimo Bucaneve (Galanthus nivalis)! Ma le compatte rupi dove è difficile alle specie vegetali insinuare le loro radici tra i grossi e compatti cristalli di selenite, specialmente dove la pendenza non è troppo accentuata, alimentano, con la caduta di minutissimi clasti, l'ambiente di sfatticcio che verrà poi via via dominato da praticelli effimeri (talora a forte preponderanza di graminacee e degni quindi dell'appellativo di "gramineti") rappresentati quasi esclusivamente da terofite quali le graminacee Scleropoa rigida, il "classico" Brachypodium distachyum, qualche Bromus, la diffusissima (quivi ma anche nei prati più magri ed aridi) Aegilos ovata e poi altre terofite che graminacee non sono (come il termine gramineti potrebbe erroneamente far pensare o indurre a credere) come alcune minuscole Cariofillacee, talune Crucifere (come la assai significativa Draba verna), le geraniacee E-rodíum malacoídcs ed E. cíconíum e, pure assai significativa per la densità e purezza che raggiungono certi suoi minuscoli popolamenti, la Ombrellifera Bupleurum odontites... La gariga Ma dove l'accumulo di sfatticcio è via via maggiore e dove l'accumulo dei cascami degli organismi squisitamente costruttori del terreno, quali Muschi e Licheni, si fa maggiormente sentire (e dove, inoltre, la giacitura è favorevole ad un maggiore, seppure modesto ristagno della copertura nevosa e delle piogge) e specialmente se la roccia comincia ad essere fratturata e "stanca" o, meglio ancora, è caratterizzata dalla presenza di interstrati argillosi o ghiaiosi, ecco che la formazione vegetazionale che allora tende ad affermarsi è la "gariga". Dal punto di vista del dinamismo della vegetazione si può giungere alla gariga da due differenti vie, una di evoluzione della vegetazione preesistente ed una di degradazione. Vi si può quindi arrivare da una progressiva degradazione di uno o più tipi di "macchia" (e cioè di un bosco - più o meno degradato e di scarsa altezza - in cui abbondino le specie sempreverdi mediterranee quali il Leccio, il Laurotino, il Mirto, il Lentisco, il Corbezzolo e così via) e per colonizzazione e "costruzione" (come riteniamo avvenga qui almeno nella massima parte dei casi) di ambienti originari assai difficili. E le rocce gessose, per quanto modificate come sopra brevemente illustrato, lo sono sicuramente. L'ambiente di gariga, comunque, non è più strettamente ed esasperatamente selettivo come i precedenti ed ecco allora che in questi ambiti si compenetrano variamente non solo le specie più significative e rappresentative della gariga stessa (e cioè i già citati Artemisia alba, Helichrysum italicum, GaIium corrudifolium, Fumana procumbens, Thymus striatus) ma non mancano nemmeno grosse graminacee dai robustissimi apparati radicali (ovviamente fascicolati) come Bromus erectus, Dactylis glomerata, Brachypodium pinnatum, e le più caratteristiche, per vari motivi, Melika ciliata, o Botheriochloa ischaemon o Andropogon gryllus o Diplachne (detta anche Cleistogenes) serotina. Serotina perché? Perché a fioritura tardo estiva o autunnale. Ancora, più o meno della stessa taglia delle precedenti, sono presenti le già citate Campanula sibirica, Erysimum sylvestre, Onosma echioides, Silene otites, S. vulgaris, S. cucubalus (fornitrice di giovani getti ghiottamente eduli), il profumatissimo Dianthus caryophyllus, (Figg. 5 e 6). Quando poi a queste specie si aggiungono anche Lavandula latifoglia, una delle fragranti lavande spontanee della nostra flora, allora la tipologia della gariga è esaltata al massimo anche nella sua essenza di "mediterraneità ". Non mancano nemmeno molte delle terofite già citate (e segnatamente Aegylops ovata); talune geofite (e cioè quelle piante dotate di organi sotterranei di sopravvivenza (bulbi in questo caso) come soprattutto Allium sphaerocephalum o la piccola, deliziosa Scilla autumnalis che è però specie a fioritura autunnale e che, quindi, spesso sfugge ai botanici visto che in altre stagioni è rappresentata esclusivamente da un piccolo bulbo a "vita latente" in qualche minuscola cavità della roccia. Ma nella gariga cominciano ad affermarsi quelle specie, arbustive o arboree, di spiccata impronta mediterranea come il Leccio (Quercus ilex), la Fillirea (Phyllirea latifolia), l'Alaterno (Rhamnus alaternus), il Cisto a foglie di salvia (Cistus salvifolius), il già citato Teucrium flavum, Pistacia terebinthus (Figg. 7 e 8) (e dobbiamo accontentarci di lui solo - e dei curiosissimi bitorzoli che porta - giacché il più significativo P. lentiscus non riesce a spingersi sin qui). Di grande significato è la presenza, come già anticipato, di piccoli lembi a Lavanda (Lavandula latifolia) così come il fatto che talora vi si inselvatichisca l'Olivo che nasce da semi provenienti da qualche sporadica presenza presso qualche pieve o dai non lontani oliveti delle valli del Lamone e del Marzeno. Abbondano poi i macchioni di Ginestra odorosa (Spartium junceum) e di Asparago selvatico (Asparagus acutifolius) ma la loro presenza è solo apparentemente banale: in effetti è di grande significato fitogeografico e - anche se il delizioso Corbezzolo (Arbutus unedo) non riesce a sopravanzare lo scoglio di San Marino - rimarca la mediterraneità dei luoghi. L'Amarissimo, in fondo, non è troppo lontano! Ancora nella gariga non mancano nemmeno le specie più squisitamente tipiche dei boschi e cioè, in una fase transitoria pioniera, il Ginepro comune (Juniperus communis e, più a sud anche qualche Juniperus oxicedrus, il Ginepro rosso), qualche striminzito Querciolo (Quercus pubescens); qualche orniello (Fraxinus ornus); qualche Carpino nero (Ostrya carpinifoglia). La antica persecuzione motivata dalla bontà del legname ha confinato il Leccio quasi esclusivamente in impervie stazioni rupestri. Per concludere, a proposito delle garighe, due parole sulla loro ascrizione fitosociologica. Questo tipo di vegetazione è ascrivibile alla associazione Xerobrometum apenninum Volk 1958 (sia pure in senso lato), a sua volta inquadrabile nella classe dei Festuco-Brometea ma - come sta ad indicare la presenza di specie maggiormente caratteristiche, come Artemisia alba, Dianthus caryophyllus e Globularia punctata - anche della classe Ononido-Rosmarinetea a riprova della mediterraneità più volte richiamata. I boschi E così - gradualmente - siamo arrivati ai boschi. Prima di passare a descriverli occorre fare giustizia di un vecchio luogo comune. Premesso che i boschi, per ovvi e facilmente intuibili motivi stazionali, mai e poi mai avrebbero potuto colonizzare i fronti dei banchi gessosi, occorre andarli a cercare, in genere, sui versanti settentrionali della Vena, sui più dolci declivi argillosi che si immergono verso il "mare" dei calanchi. Non sempre, temo, è facile decidere se si tratta ancora di argille della Vena o argille della estesa fascia dei calanchi e questo fatto può avere contribuito agli equivoci di cui sopra, dovuti anche al fatto che, proprio per la scarsa acclività e la favorevole natura del terreno l'Uomo, da tempo immemorabile, li ha "fatti fuori" (come ha fatto fuori quelli che crescevano sull'ospitale fondo delle doline per ricavarne gli indispensabili coltivi. Da una errata interpretazione di questi fatti si credette di poter dedurre (e lo si affermò a lungo) che i boschi, sui versanti settentrionali argillosi della Vena, non c'erano. Ed invece, anche se non esaltanti, né per estensione né per tipologia, c'erano ed un mio antico allievo, Giardini, li fece oggetto della sua tesi di laurea. Di quali boschi si tratta? Ma in sostanza si tratta di boschi stremati da millenni di intenso sfruttamento, dominati da 5-6 specie forestali di grande interesse e cioè la Roverella (Quercus pubescens), ed in minor misura, sempre tra le Querce caducifoglie eliofile, il Cerro (Quercus cerris); il Carpino nero (Ostrya carpinifolia); l'Orniello (Fraxinus ornus); l'Acero campestre (Acer campestre) e, in minore misura, purtroppo (per la "nobiltà" che rivestono) il Sorbo (Sorbus domestica) ed il Ciavardello (Sorbus torminalis). Ma i molteplici microambienti in cui la grande frammentazione fisica della Vena e la plurimillenaria attività umana hanno confinato i boschi li hanno resi poco uniformi e, spesso, anche assai poco comprensibili in fatto di inquadramento fitosociologico. Così se è vero - come è vero - che nelle stazioni più fresche (per esposizione o perché collocate nel fondo delle doline) nel ceduo domina il Carpino nero (attivissimo e prontissimo nel "pollonare" dopo ogni taglio) spesso consociato all'orniello (donde la definizione, basata soprattutto su percezioni fisionomiche, di Orno-Ostrieto), non può essere né sottaciuto né misconosciuto il ruolo della Roverella, sicuramente più "castigata" nel passato dai tagli mirati e, in quegli ambienti, più soggetta alla micidiale concorrenza di "quei due": Orniello e Carpino nero. Ma, continuando così, temiamo di non riuscire ad andare sufficientemente con ordine giacché i boschi sono gli ambienti floristicamente più ricchi di tutte le tipologie della Vena. Ci sia concesso allora riprendere, da Zanotti & Corbetta (1983) una tabella sinottica dei boschi della Vena, (Tab. 2A - Tab. 2B). La commentiamo solo brevemente giacché la complessità dei problemi (ed il "taglio" di questo scritto) non ci consentono di effonderci maggiormente. Vediamo allora che nella colonna "A" della tabella sono raggruppati rilevamenti relativi a tipologie sicuramente più mesofile (testimoniate, ad esempio, dalle presenze, tra i cespugli e gli alberi, di Carpinus betulus, il Carpino bianco; Sorbus torminalis, il Ciavardello; Corylus avellana, il Nocciolo e poi, tra le specie erbacee, le nobilissime geofite nemorali quali Lilium croceum, Symphytum tuberosum, Anemone hepatica (= Hepatica nobilis), Anemone nemorosa, Erythronium dens-canis ed anche il sempre assai suggestivo Bucaneve, Galanthus nivalis Comunissima e diffusissima, la Primula (Primula acaulis). La colonna "C" raggruppa situazioni di assai minore mesofilia, come si evince dalle abbondanti e significative presenze di specie tipicamente pratensi (e termofilo-arido pratensi!) come Anemone hortensis, Dorycnium hirsutum o Polygala nicaeensis, Teucrium chamaedrys e, tra i cespugli, Pistacia terebinthus. Da sottolineare ancora, per la facilità con cui ci si potrà imbattere in essi, le presenze, tra i cespugli, del Biancospino (Crataegus monogyna) e della Lonicera a legno d'osso (Lonicera xylosteum) o, tra le liane, la onnipresente Clematis vitalba e la profumatissima Lonicera caprifolium, il Caprifoglio o Madreselva. Diffusissimo il Ciclamino napoletano, Cyclamen hederifolium (= C. neapolitanum) ad abbondante fioritura autunnale (senza foglie). Finita la fioritura appare l'abbondante fogliame che dura tutt'inverno e l'inizio della primavera. Poi, con i primi caldi, il fogliame ingiallisce e declina e la pianta se ne sta in completo riposo per qualche mese sotto forma di caratteristico tubero discoidale, assai compresso. I boschi, di solito (e forse paradossalmente), non albergano piante granché rare (e meno che mai tra le legnose). Qui, invece, la eccezione, assai gradevole, c'è ed è rappresentata dalla presenza della stupenda e rarissima Staphylea pinnata, il Borsolo. Non riteniamo opportuno addentrarci ulteriormente nella complessa problematica fitosociologica: basti quanto riportato in testa alla tabella. Doverose invece due parole, ancora, su un particolare tipo di bosco e cioè quel bosco coltivato che è il Castagneto, un tempo sicuramente più diffuso, come testimonia il suo inglobamento e cicatrizzazione da parte della vegetazione spontanea locale "potenzialmente" più adatta e quindi sicuramente favorita. Piccoli ma interessantissimi lembi di castagneti da frutto di alto fusto sono presenti nella zona del Monte del Casino tra Santerno e Senio. Le praterie Molto importanti dal punto di vista sia paesistico che ecologico; ben "rnosaicate" ad interrompere ogni continuità ed a variare la diversità biologica dei luoghi, ma non molto rappresentative, per molti motivi, sono le "praterie". Non lo sono, molto rappresentative, anche per la mancanza di una cultura agro-pastorale che non ha mai previsto né lo sfalcio né tanto meno le concimazioni ed ha previsto invece il solo sfruttamento mediante il pascolo. Si tratta, intuitivamente, di sole formazioni "secondarie" ottenute dall'Uomo mediante disboscamento e proprio l'abbandono di questi ultimi decenni testimonia questa loro natura con il "prepotente" ritorno di molte specie arbustive od arboree squisitamente colonizzatrici: Ginestra, Ginepro, Rose selvatiche, Orniello, Carpino nero e - segnatamente - la Vitalba. Le specie tipicamente pratensi quivi dominanti sono Brachypodium pinnatum, Bromus erectus, Dactylis glomerata, Festuca duriuscula, Achillea millefolium e molte altre ancora. Anche se l'interesse floristico e soprattutto fítosociologico delle "praterie" è sostanzialmente modesto, non dobbiamo cadere nel facile equivoco che non siano importanti anch'esse. Lo sono, eccome, ed ecco spiegato il perché del fatto che quando ci si esprime in termini pianificatorio-conservazionistici ci si esprime, assolutamente senza mezzi termini, per la loro conservazione mediante ripresa di pascolo e sfalci a scapito magari anche - con opportuni decespugliamenti - degli invadenti (e "denaturanti") cespugli ricostruttori. Dopo millenni di dominio dell'uomo gli equilibri sono così delicati che non ci possiamo permettere di lasciare alcunché al caso. Tutto va seguito, attentamente, con la acutezza dell'occhio scientifico ed anche, perché no?, con "intelletto d'amore" anche con oculati e mirati interventi attivi. Altroché la "imbalsamazione" del territorio di cui ci accusano non disinteressati ma disinformati detrattori. Ma lo sanno di che parlano? Temiamo di no! Cheilanthes persica Ogni area protetta ambisce ad avere un simbolo, animale o vegetale che sia, onde trarne anche, come oggigiorno si dice, il "logos"... Crediamo non vi possano essere dubbi che simbolo (e "1ogos") del parco della Vena del Gesso possa (o debba?) essere una minuscola, apparentemente quasi insignificatamente "felcetta": Cheilanthes persica, appunto. Perché? Il perché è presto detto e per le sue varie vicende, assai romanzate e soprattutto per il fatto che, anche se non di un vero e proprio endemismo si tratta, la disgiunzione di questa stazione dall'areale principale è così marcata che, con un po' di buona volontà, in fondo, la possiamo considerare tale. E chissà che un giorno qualche studioso moderno e raffinato, in base ad acute e complicate osservazioni su cromosomi, tricomi al microscopio a scansione o indagini elettroforetiche sul DNA o cromatografiche su qualche altro composto non riesca a dimostrarci che, sì, la nostra felcetta ha qualcosa di diverso da quelle che continuano a vegetare nell'ambito dell'areale principale, là sulle lontane coste dell'Anatolia o addirittura sulle montagne caucasiche... Sì, lo so: sarebbe troppo bello per essere vero. Ma, la nostra felcetta, ai miracoli ci ha già abituati. Era stata data per estinta non da un volgare dispensatore di frottole ma addirittura dal sommo Pietro Zangheri, colui che, la Vena del Gesso e i suoi pregi naturalistici, li conosceva come e meglio delle proprie tasche. Poi - iniziano gli anni '80 - quasi contemporaneamente (ma non è il caso di cercare inutili primogeniture) - un vecchio marpione (colui che qui scrive) e la sua gentile Collaboratrice da un lato ed un giovane e promettente Ricercatore dall'altro - ritrovano, quasi miracolosamente, e non in pochi sparuti individui ma fortunatamente a centinaia la felce, pertanto da ritenersi "rediviva" in Italia. La notizia (anzi la doppia notizia) del ritrovamento viene pubblicata contemporaneamente sulla cara e gloriosa "Natura e Montagna" (Marzo 1981). Riprendiamo in questa "scheda" dedicata al nostro "emblema" alcune parti di quando, allora, scrivemmo. "Sulle pagine di questa stessa rivista, nel giugno del 1964, il Prof. Pietro Zangheri (1) amato decano dei Botanici Italiani, dava al mondo scientifico nazionale, e protezionistico soprattutto, una ben triste notizia: quella che si riteneva, allora, la perdita, per la flora italiana, di una elegante e graziosa Felce, appunto Cheilanthes persica, conosciuta per una sola stazione, alla imboccatura della ben nota "Grotta" o "Tana del Re Tiberio", all'altezza di Borgo Rivola, nella "Vena del Gesso". In quella occasione il Prof. Zangheri faceva, mirabilmente, la storia di quella piccola Felce che per un certo periodo di tempo fu ritenuta dal sommo Bertoloni addirittura specie del tutto nuova per la scienza e denominata - in quella risultata poi errata convinzione - Acrostichum microphillum Bert. La ben nota stazione di Monte Mauro di questa Felce era stata scoperta nel 1833 da un farmacista imolese, Giacomo Tassinari. Ma, riprese queste notizie in forma estremamente sommaria, non intendiamo dilungarci ulteriormente e rimandiamo coloro che desiderassero ulteriori notizie - sia di tipo storico che sistematico-nomenclaturale - al citato articolo del Prof. Zangheri, che tra l'altro riprese anche in altre sedi, con accorate parole di più che giustificato rammarico, la vandalica distruzione della grotta e dei suoi abitatori vegetali, tra i quali era da ricordarsi (anche se a minore livello di rarità) un'altra Felce, Phyllitis sagittata (o Scolopendrium hemionitis). Di questo ritrovamento è già stata data breve notizia da uno di noi su questa stessa rivista (2). Ora ci pare giusto dare, sempre su queste stesse pagine, più ampie notizie sulla riconferma della presenza di questa rara specie nel nostro paese, proprio sulla stessa "Vena del Gesso" a distanza, in linea d'aria, di pochi chilometri dalla stazione prima conosciuta. Da alcuni mesi stiamo effettuando in zona studi vegetazionali di supporto alla ipotesi di istituzione di un "parco" o di un "biotopo" della "Vena del Gesso", secondo quanto previsto dalla Legge Regionale 24-1-1977, n. 2, per la tutela della Flora. L'iniziativa è stata presa, nel 1979, dal Comprensorio di Faenza e dai Comuni delle vallate del Senio, Lamone e Marzeno, e già da alcuni mesi, ripetiamo, avevamo effettuato diversi sopralluoghi addentrandoci anche nei recessi più reconditi e meno accessibili di Monte Mauro che, della intera "Vena", è indubbiamente il gioiello più prezioso... Ebbene, ironia della sorte, il 10 marzo 1980, dopo una ennesima giornata di faticosi "su e giù" da una dolina all'altra, nel corso della quale, spesso ma inutilmente, avevamo infinite volte posato lo sguardo sulle pareti più fresche ed umide, sempre e desolantemente popolate, tra le Felci, solo da Ceterach officinarum, Polypodium australe, Asplenium trichomanes, ecco che - su una parte nemmeno tanto umida e posta nella collocazione più banale, pensate, ai lati della strada comunale che dal fondovalle del Senio porta a Zattaglia - una presenza inconsueta attira il nostro sguardo... Prima un cespo solo. Poi, guardando meglio, un altro; poi un altro ancora e così via sino a contarne una dozzina di microstazioni. Prima una trepida speranza e poi, in laboratorio, la... agognata conferma: sì, è proprio lei, Cheilanthes persica, ora restituita alla nostra Flora! Ci scusino i lettori per qualche termine o qualche espressione forse un po' enfatica ma, via, l'occasione, ci pare, lo giustifichi pienamente. E poi queste parole sono proprio il fedele specchio di quelli che, in quelle ore, sono stati i nostri sentimenti. (1) ZANGHERI P. - Una perdita per la Flora italiana (L'estinzione della Felce Cheilanthes persica Mett. ap. Kuhn). Natura e Montagna 4, 77, 1964. (2) CORBETTA F. - Le Felci emiliane. Natura e Montagna, 27, 95, 1980. |
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