Regione Emilia Romagna; Assessorato Pianificazione e Ambiente, Collana naturalistica - La Vena del Gesso - 1974
  

MEDIOEVO E PRIMI SECOLI DELL'ETA' MODERNA: 

CULTURA LOCALE E VICENDE STORICO-DEMOGRAFICHE

  

Susanna Raccagni

      

Incastellamento e forme insediative

E' nel corso del Medioevo che gli eventi storici tornano prepotentemente a interessare la catena gessosa, massima essendo la documentazione per le valli imolesi e faentine. La loro storia si àncora alle intricate vicende politico-sociali e religiose che caratterizzano l'età: il feudalesimo, le lotte tra papato e impero, signorie in testa. Sono infatti le forze motrici artefici di quel fenomeno dell'incastellamento, che ancor oggi ci testimoniano le rocche, le torri, i castelli ed i fortilizi diffusi un po' ovunque sull'Appennino Emiliano-Romagnolo, e con abbondanza e imponenza di strutture lungo la Vena gessosa, complici le asperità geomorfologiche della barriera. Esempio ancora eminente è la Rocca di Brisighella.

Se il carsismo proprio della "Vena" ha naturalmente consegnato all'uomo preistorico antri e caverne idonei per esser luoghi di dimora o di culto, analogamente "durante il Medioevo vennero utilizzati gli speroni gessosi più inaccessibili come basamenti di castelli, rocche e torri allo scopo di impedire agli avversari l'avvicinamento a quelle fortezze che potevano considerarsi come veri nidi di guerra" (1). Perché i castelli sono prima di tutto, e in senso stretto, luoghi di difesa, poli di raccolta per le genti locali, le popolazioni ormai da tempo sparse nelle ville circostanti. Così è per Brisighella in Val Lamone, o d'Amone, come recitano le cronache del tempo. Sicuro centro strategico, posto come è a cavaliere tra Romagna e Toscana, crocevia di mercanti e di militari. Attraverso il Mugello si apre infatti l'entroterra toscano. Ricco, commercialmente parlando. Utile scappatoia a chi volesse fuggire la forza dello strapotere e arbitrio dei signori locali. Valvola di sfogo in quanto area su cui dirigere l'emigrazione delle comunità montane nei momenti di congiuntura economica sfavorevoli, quando carestie, epidemie, aggravi fiscali e rincari dei prezzi - così frequenti in Romagna - (2) indirizzavano la locale popolazione, in esubero rispetto alle insufficienti risorse produttive del territorio, verso la vicina Toscana.

Incerte sono le origini di Brisighella. Secondo alcuni la fondazione di un "castrum Brasichellae" rimanda ai conti Belmonti delle Camminate e data al 1178. Per altri comincia il 13 giugno 1192 e va attribuita agli abitanti del castello di Baccagnano in fuga dopo la sua distruzione operata dai Faentini (3). Ma dove tutte le fonti concordano, è nel rilevare che Brisighella cresce in importanza un secolo dopo; a tal punto, anzi, che sullo scorcio del XIII secolo dopo Cristo è il primo castello, il più importante, dell'intera vallata. La ragione principale della sua ascesa sta nel durissimo assedio - e questa volta definitiva distruzione - del Castello di Baccagnano, dapprima alle dipendenze di Francesco Manfredi. Responsabile dell'attacco, il ricco capitano di ventura Maghinardo Pagani da Susinana, signore su Imola, Faenza, Forlì e Cesena. Precisa Calegari nella sua "Cronaca di Brisighella e Val d'Amone": "Questo Maghinardo l'anno 1290 andò a campo a un castello di Francesco Manfredi da Faenza, chiamato Baccagnano, posto in Val di Amone, di là dal fiume a man manca, per andare da Faenza a Firenze, di riscontro appunto dove è hoggi Brassichella, e l'assediò per molti giorni continui, combattendo giorno et notte; et perché l'assedio fosse più stretto ed aspro, fondò un altro castello dirimpetto a Baccagnano, di qua dal fiume Amone, a man dritta per andare in Toscana, che è hoggi la torre vecchia di Brisighella, e la fondò sopra un sasso di gesso alto e spiccato a torno a torno, come uno scoglio; e lo fabbricò di quadroni del medesimo gesso, tagliati a scarpello, e vi mise suoi soldati e guardie con una grossa campana per dare i segni che bisognavano; et con tal modo strinse sì Baccagnano, che lo prese et distrusse; e dalla distruzione di questo crebbe poi Brassichella, che avanti era piccola contrada, e non haveva né torre, né rocca, come hoggi; perché Maghinardo, edificò la torre vecchia (4).

Morto Pagani, la "torre antica" e prima fortificazione del luogo passò in mano a Francesco Manfredi il quale la trasformò in baluardo di difesa - Rocca -, assecondando gli ultimi criteri inerenti le strategie di fortificazione (5). Luogo sicuro "in virtù della sua postura e quindi per le difficoltà enormi che dovevano superare gli assalitori lungo le scarpate di quello scoglio" (6), nel 1308 resse validamente all'assedio dei Ghibellini forlivesi (7). Si susseguono negli anni, altre fortificazioni e mura bastionate e assedi: è un dato del tempo, visto che per almeno due secoli la zona è valle contesa tra le varie signorie. E cioè da quando il potere ecclesiastico entra in crisi in Romagna, prima del suo rientro nel primo decennio del 1500. Scorrendo in rapida successione le vicende della zona, basterà segnalare che nel 1410 diventa capoluogo della contea della Val Lamone, sotto i Manfredi: separata dal contado faentino, Brisighella avrà un suo statuto autonomo. Con la venuta di Cesare Borgia nel 1500 termina il potere dei Manfredi. Nel 1503 passa in mano ai Veneziani.

Dopo il sacco dei soldati imperiali diretti a Roma nel 1527, verso la metà del 1500 si apre un periodo di relativa pace per la vallata. In verità, limitatamente al fronte dei grandi eventi storici. Perché su scala locale crescono le incursioni banditesche, fenomeno ricorrente e articolato che fonde e confonde protesta sociale e non. Al radicale dissenso pre-politico, l'anarchica contestazione, la disperazione, i saccheggi: il tutto entro un orizzonte sociale di stampo precapitalistico. Valgono da ausilio ai banditi le caratteristiche geo-morfologiche del territorio: dunque l'esistenza delle note grotte dell'area gessosa, veri e propri covi naturali, ottimamente protetti dalle asperità del suolo, di difficile accesso e massimamente per le truppe regolari. Inoltre, la vicinanza alla Toscana ne agevola lo sconfinamento all'estero.

Siamo alle soglie del '600, quando il banditismo può ritenersi sconfitto nella valle, avviando la storia locale verso "il trionfo di una stabilità politica e amministrativa, di una solidificazione delle strutture generali dalle quali scaturiranno i tratti essenziali del paese e della valle di oggi" (8). D'altra parte gli sforzi di papa Sisto V, tesi a contrastare il brigantaggio, nella risolutezza dei toni "rivelano debolezza più che abilità", mettendo in primo piano le fragilità dello Stato contro "un nemico mobile, inafferrabile, che disponeva di potenti appoggi" proprio nelle popolazioni locali (9).

L'impegno maggiore del Papa contro i briganti dello Stato romano scatta nel 1585, allorquando alla lotta contro i fuoriusciti (Turchini ritiene che il Pontefice, non diversamente da Venezia, autorizzasse con trattati "le sue milizie a perseguitare e ad inseguire i delinquenti sino a sei miglia al di là della frontiera") (10) Sisto V associa misura identiche a quelle di un provvedimento veneziano risalente al 1555 che, come strumento di lotta interno alle bande, accordava "il perdono a ogni brigante... che uccidesse uno dei suoi compagni, più carico di lui di delitti" (11).

Dunque, il banditismo polarizzò la società civile romagnola, già fortemente segmentata, contrapponendo frange di popolazione le une alle altre. "D'altra parte si mobilita al massimo delle sue capacità una magistratura popolare, sostanzialmente tipica del mondo romagnolo, come la "magistratura dei cento pacifici", che organizzava armati, mirando a ristabilire la pace e l'ordine. Questa specie di guardia civica risulta presente a Brisighella sin dal 1540. Inizialmente composta di 25 uomini, raggiunse presto il numero di circa 200 uomini (nel 1549): 200 "sbirri" senza scrupoli, quasi più pericolosi degli stessi banditi, cui avrebbero dovuto dar la caccia. Riformata fra il 1573-1574 e ricondotta sotto il controllo dell'autorità pontificia, la "magistratura dei cento pacifici" svolse appieno il compito affidatole" (12).

Nel corso del 1500, i banditi costruiscono la storia locale del Castello di Rontana, eretto sull'omonimo monte ad ovest di Brisighella, sopra ad un ciglione di gesso. Tant'è che nel 1591, papa Gregorio XIV ne ordinò la completa distruzione, essendo rifugio di "una grossa orda di briganti che scorazzava per tutta la Romagna con rapine, saccheggi ed uccisioni e che aveva gittato il terrore perfino nelle città" (13).

Il Castello di Rontana, in origine di proprietà di Ugone di Rontana o della Pieve (risale al 973 il più antico documento che lo menziona) (14) è stato lungamente conteso nel corso dei secoli successivi. La sua storia ricalca da vicino quella del Castello di Brisighella. In mano ai Faentini sul finire del XII secolo, poi dei Forlivesi, e di nuovo dei Faentini i quali, nel 1209, "lo fortificarono ulteriormente per far fronte agli abitanti della montagna che, ribellatisi, cercavano di occuparlo" (15).

Nel 1291 era soggetto ai Manfredi cui, l'anno seguente, lo sottrasse lo stesso Maghinardo Pagani in azione a Brisighella. Nuovi passaggi di mano si ebbero nei secoli successivi (spiccano le aspre lotte tra i Manfredi di Faenza e i Manfredi di Marradi per averne il possesso). Poi, nel 1500, lo espugna Dioniso Naldi per conto di Cesare Borgia. Da ultimo fu dei Veneziani, cui lo tolse papa Giulio II.

La "Vena del Gesso" romagnola conta altri fortilizi: quello di Monte Mauro, la Rocca di Tossignano, Ca' Sassatello, Gesso; Castellina, Rivola. Dei primi restano reperti e tracce. Mentre la seconda serie ha memoria solo nella documentazione storica ( 16).

Su Monte Maggiore, "posta in Val di Sintria sopra un asprissimo scoglio di gesso che si eleva sul mare 512 metri" (17), si ergeva fin dal 953 "Castrum Tiberiacum", altrimenti nominato "Montis Majoris" (Monte Maggiore) nel 1236. Se lo contesero Lotario e Corrado, rispettivamente nipote e figlio dell'imperatore Enrico. La Rocca si ergeva su Monte Mauro, dominando la valle del Sintria e quella di accesso al Senio. Anche in questo caso, con il ruolo di protagonista, la topologia del territorio, che valorizzata dalla "cultura" degli uomini d'arme si traduce in elemento indispensabile di difesa. Scrive il Lega:

" ... l'arte vi aveva aggiunto ogni possibile munizione di torri legate con ponte levatoio, e cinte da grossi gironi di mura per renderla fortissimo e terribile propugnacolo. L'accesso ad essa era cavato tra scogli strettissimo, e sotto grotte e burroni a picco, che formavano tale precipizio da mettere solo a guardarlo spavento. Con fumate, e segnali con cesti si davano i Castellani delle Rocche attorno, e specialmente con Rontana gli avvisi" (18).

E' evidente quanta parte avessero le naturali caratteristiche geologiche delle rocce gessose nel garantire l'inespugnabilità del luogo. Del resto: "La torre era alta 10 metri circa; la porta larga un metro e alta due; dalla porta al ciglio del burrone vi erano meno di due metri. ...Dalla parte sud, ove il monte è molto scosceso vi erano tre piccoli fortini che guardavano i fianchi verso il Sintria" (19).

Durante il XIII secolo, questa semi-inespugnabile fortezza fu possesso faentino, imolese, bolognese. Pagani la occupò nel 1293. I Manfredi lo ebbero per quasi tutto il XIV secolo. Dopo altri contenziosi fra Visconti, Santa Sede, Sforza, Borgia, fu dei Veneziani i quali - nel 1503 - distrussero completamente la Rocca.

Con il fortilizio di Tossignano (Castrum Tauxiniani), si cambia fiume (Santerno) e valle, non però la logica di fondo: i criteri topologici in ossequio a funzioni storiche di difesa. Lo scenario è identico: la rocca fu eretta su aspri scogli gessosi.

"Di ampio circuito era munita di fortissime mura con torrioni, mastio e casa di abitazione per il Castellano e i suoi difensori. Aveva servito ad assicurare più volte l'incolumità personale dei Legati mandati dal Pontefice a governare la Romagna in rivolta e il Guicciardini considerava Tossignano, per la sua posizione e la sua Rocca, uno dei paesi più formidabili della regione" (20).

Tralasciamo i dettagli relativi ai numerosi avvicendamenti tra Imolesi, Bolognesi, S. Sede, Veneziani, per dire che la rocca - ricettacolo di banditi - fu quasi rasa al suolo negli ultimi mesi del 1538, eseguendo l'ordine del Commissario pontificio che nel 1537 aveva consegnato Tossignano a Imola. Quasi - si diceva - ma non tanto da impedire a don Silvio Severi, viceparroco di Tossignano, di restituire ai visitatori torrione, fossato e rivelino, ai piedi del vecchio rudere, in un decennio di volontaristico scavo personale.

Con Tossignano ha termine questa breve rassegna attorno ai fortilizi caratteristici dell'area gessosa romagnola. Ve ne sono altri importanti, anche se piccoli, perché dislocati in maniera strategica rispetto ai sistemi di comunicazione, come nel caso di "Castrum Saxatelli". Tuttavia la loro storia non aggiungerebbe elementi nuovi al quadro fin qui tracciato. Né cambia la sostanza del discorso passando all'area dei Gessi bolognesi, dove sono da menzionare numerosi castelli. Quello di Gesso, che "era guardato da una scoscesa rupe da due parti" e di cui nel 1781 non restava altro "che una profonda e vasta buca rotonda che sembra sia servita per serbatoio d'acqua, ovvero di nascondiglio". Mentre il toponimo "Rocca" è probabile memoria della fortezza eretta a difesa del castello, che una profonda valle separava infatti dalla buca, per chi avesse tentato l'attacco dal lato del Lavino (21).

Dell'antico Castello della Corvara - oltre il Savena - è certa l'esistenza nei secoli attorno al Mille; forse fu abbattuto nel 1293 per volontà del Senato bolognese seguendo l'identica sorte di altri castelli ubicati nel medesimo territorio. Dal XVI secolo spariscono infatti le sue tracce nei documenti del tempo tanto pubblici che privati. Si conservò, però, come territorio fittamente popolato. Pare che su di esso, nel 1404, il Legato di Bologna abbia esteso la cittadinanza, concedendo agli abitanti gli stessi privilegi e le medesime immunità di cui godevano i cittadini dello Stato e delle Cappelle (22).

E infine "l'antichissimo Castello Gessaro detto Britto", praticamente l'ultimo di cui si abbiano notizie sicure entro i confini della Vena del Gesso bolognese. Perché infatti per Pizzocalvo - collina gessosa sita tra i torrenti Idice e Zena - mancano i precisi riscontri necessari a comprovare l'esistenza di un castello ( 23).

Va da sé che il moltiplicarsi dei fortilizi configura l'instabilità politico-sociale del periodo. Allorché la vita migra verso i centri protetti, i tanti castra sono il più tangibile esempio che la "pax romana" era finita. E con essa, ogni garanzia di incolumità per una popolazione disseminata sul territorio cedeva il passo ad una generale e diffusa insicurezza dei luoghi. Gli abitati isolati non sparirono d'un sol colpo: sopravvissero in età longobarda, ma la tendenza era comunque all'accentramento insediativo. Ancora qualche altro secolo, e le incursioni arabe e ungare accelerarono del tutto il processo di edificazione - recupero e trasformazione - di "vici", "castra" e "oppida", "molti dei quali a loro volta erano sorti come "villae", "fundi" e "curtes" allargati e trasformati in castelli. In realtà, come mostra il linguaggio dell'epoca, fra villa (o "fundus" o "massa") e villaggio le differenze diventano sempre più tenui" (24).

Vale da esempio la storia di una collina che s'innalza tra il Santerno e il Torrente Sellustra, all'estrema periferia della fascia gessosa romagnola che guarda il Bolognese: Monte Maggiore, o Monte Mavore, con espressione "più uniforme all'antica sua denominazione dell'VIII secolo" - ci ricorda il Calindri. Tre diversi documenti (la Carta di Opilione del 793; la pergamena del 969; il trattato d'enfiteusi del 1192) lo identificano: "come semplice fondo, come un luogo con corte", i primi due. Come "territorio ... e perciò già Castello" il terzo, "cosicché sembra doversi credere - è la conclusione di Calindri - avesse origine il Castello di Monte Mauro, ora Monte Maggiore circa il Mille". Del Castello, ma prima "fundum Mauri" non rimanevano sullo scorcio del XVIII secolo che le reliquie di pochissime fondamenta di mura castellane, di una porta castellana, e di una porzione della sua rocca" (25). Insomma, castra e oppida identificano i tradizionali luoghi di lavoro e di produzione di un tempo più lontano, ma hanno assunto poi - ed è la novità dell'alto e pieno Medioevo dai secoli IX al XIII - la fisionomia di centri protetti, di casali fortificati.

Vocazione agrarie e disboscamento

Gli affioramenti gessosi nella regione hanno il loro più vigoroso sviluppo in Romagna. Il loro interesse investe l'ambito vegetazionale e configura consorzi paesistici sul cui valore altri sono intervenuti. A noi compete seguire l'azione antropica che accompagna l'evoluzione della società.

Esempi storicamente significativi si traggono dal lungo corso del Medioevo, nel periodo siglato da evoluzioni climatiche e storiche. Una congerie di fatti inediti - tra alluvioni, invasioni, guerre, incastellamenti - smobilita i precedenti assetti economico-sociali. Sulla fascia gessosa si alterna oggi un paesaggio formato da gramineti su roccia, garighe, prati e boschi. Il predominio dei quali dipende dall'inclinazione degli strati gessosi, dalla loro esposizione, dall'accumulo di terreno, da eventuali ristagni d'acqua (26).

Nei versanti esposti a nord in orizzonte medio, troviamo - come nella valle del Sintria - la quercia roverella, il frassino, il carpino nero ed anche il castagno.

Per quanto se ne può dedurre dalla documentazione del passato, la situazione attuale ha riscontro nelle antiche tipologie. La diffusione dei querceti e l'abbondanza di ghiande avevano convinto Polibio e Strabone (rispettivamente nella seconda metà del II secolo a.C. e nel I d.C.) essere la causa dominante lo sviluppo dell'allevamento suino, rilevante fin dal II e I secolo a.C. Grandi allevatori di suini erano gli stessi Galli Insubri (27). Polibio e Strabone riferiscono dell'allevamento suino come di una economia caratteristica dell'intera regione. E il giudizio è condivisibile visto che ghiande, fave e ogni altro genere di cereali sono alla base della dieta suina. Con le sue vocazioni "agrarie", la Vena gessosa entra a pieno titolo nel quadro d'insieme. Come si è già riferito, nella Grotta bolognese del Farneto, l'analisi dei reperti paleobotanici rinvenuti - per un'età ancora antecedente, forse eneolitica - ha accertato la presenza di fave, grano, ghiande (28).

Secoli decisivi per la colonizzazione agraria del territorio, inclusa la fascia gessosa, sono il XII e XIII secolo, la piena età del Medioevo, di grande espansione demografica. Mentre nel periodo precedente, nel corso dell'Alto Medioevo fino al X-XI secolo, l'economia silvo-pastorale si era accresciuta alle spalle della produzione agricola, complice il peggioramento climatico. L'aumento della piovosità aveva provocato straripamenti dei fiumi, alluvioni. A cui si affiancavano epidemie e pesti, una volta sopraggiunte le invasioni barbariche. Tanto bastò a falciare la popolazione italica. I pochi secoli che intercorrono dal III all'VIII la dimezzano: e dagli oltre 8 milioni di persone si precipita ad appena 4" (29).

In questo panorama per vari aspetti desolante, il paesaggio innesca la sua "reazione selvosa" in consorzio con il calo della pressione demografica. Dopo lo sconvolgimento climatico nell'età finale del Bronzo, che tra smottamenti, frane e crolli aveva cagionato l'abbandono delle grotte e l'accumulo di sfatticci gessosi, questa volta nel periodo che si estende dal V al X secolo, probabilmente la decorticazione dei suoli più sottili nelle alture gessose è l'effetto primo del ripetersi di piogge" e alluvioni con conseguente accumulo di materiale verso i fondi vallivi. Dove l'acqua ristagnava, lì sono maturate le condizioni per una maggior diffusione del bosco mesofilo, soprattutto nelle bassure vallive o lungo le sponde dei fiumi e torrenti: i pioppi (Populus alba e nigra) e l'olmo (Ulmus campestris) hanno trovato l'habitat meglio congeniale alla loro crescita. Tuttavia la "reazione selvosa" avviene per gradi: pascolo, pascolo cespugliato, macchia, forteto per approdare infine al bosco vero e proprio (30). Dunque il bosco cresce: in estensione e in valore. In una cornice di grande instabilità, la scontata rarefazione degli scambi e delle vie commerciali percorribili ovunque pregiava le risorse boschive, al massimo tra le rarefatte e isolate comunità montane. Bosco significava legno per le abitazioni e per la fabbricazione di utensili ("doghe per secchi, e barili, aratri, erpici, zoccoli, recipienti scavati") (31). E risorse alimentari: radici, frutti, bacche e ghiande, funghi e tartufi, miele selvatico e castagne, celebratissime per il loro alto valore nutritivo. Le frasche di olmo (Ulmus campestris) e di orniello (Fraxinus ornus) - tipiche della fascia gessosa - somministravano foraggio per il bestiame ovino e bovino. Nei terreni incolti, nei querceti, dilagava il pascolo brado. Di più. Il bosco era rifugio eletto di animali selvatici: così che tra lepri, fagiani e uccelli, cervi, cinghiali e caprioli, l'alimentazione del contadino medioevale, se non abbondante e ricca, era perlomeno varia (32). Come difficilmente lo sarebbe stata nei secoli a venire - durante il pieno Medioevo - quando, cambiato lo scenario produttivo e sociale, la "reazione selvosa" si interrompe per cedere il passo al riappoderamento di incolti. Si entra in una fase di sviluppo demografico, il cui apice investe i secoli XI, XII, XIII. Le campagne tornano a popolarsi. Ecco dunque che una popolazione in crescita deve essere sfamata. Alcuni toponimi - Carpineto, lo stesso Farneto - tramandano la memoria di boschi trasformati in coltivi. Quelli residui cambiano volto: il castagno spesso subentra agli antichi querceti nei terreni idonei, sciolti e profondi. Il dato ha riscontro un po' ovunque, sull'intero territorio. Sotto il profilo alimentare, dire castagno equivale a dire cereali (33) Tuttavia resta difficile dimensionare l'entità del fenomeno, limitandosi al perimetro della sola micro-regione gessosa.

A cambiare in questi ultimi secoli, rispetto all'Alto Medioevo, non è tanto lo sforzo di strappare agri e coltivi a boschie paludi, quanto il successo dell'operazione. In effetti la portata della "reazione selvosa" non va esagerata nemmeno per l'Alto Medioevo. Allora il dissodamento di un campo non produceva assetti agrari stabili, tanto numerose e ripetute erano le minacce di circostanze storiche e naturali che incombevano, distruggendo in breve tempo le immani fatiche del lavoro svolto.

Dopo "dal XIII secolo, l'ambiente fisico avrebbe via via acquistato un aspetto più civile, con l'estendersi delle aree coltivate, e la progressiva riduzione degli spazi incolti, dei boschi, delle foreste" (34). Ma alcuni effetti negativi non tarderanno a presentarsi: e l'esito degli scompensi idro-geologici, a passo a passo più marcati, si faranno rovinosi nel corso dell'età moderna.

L'attività di gessaroli e fornaciai

Storicamente l'uso del gesso cotto nell'edilizia o fabbricazione di manufatti ha origini lontane. E' documentato presso gli antichi Egizi (tomba di Cheope) e pare che l'uomo preistorico italico avesse incidentalmente scoperto gli effetti della "cottura". Tracce bíancastre di focolari preistorici sono visibili nelle grotte del Farneto e Calindri, nei Gessi bolognesi. Il commento all'informazione è di Vianelli, che di recente ha scritto: "il fondo sconnesso alla caverna iniziale (Calindri) fu addirittura parzialmente livellato riempiendo gli avvallamenti con fascine e ciottoli cementati da colate di gesso cotto i cui frammenti sono stati rinvenuti durante gli scavi (35).

Nel Bolognese, l'impiego del gesso in blocchi è documentato nelle fondamenta delle torri (Asinelli e Garisenda, per esempio), nei basamenti dei porticati in quercia; negli architravi, persino nell'arginatura dei corsi d'acqua. " ... di grandi blocchi di selenite posati a secco fu sicuramente costruita la prima cinta muraria di Bologna, di cui sono tornati alla luce i resti nel 1972... in piazza Galileo" (36).

In parte diversa è la situazione nella Vena romagnola, dove mancano analoghi riscontri nelle opere pubbliche. Mentre, al contrario, ricorre nell'edilizia privata, nelle locali costruzioni, nelle fondamenta delle abitazioni. Famoso l'esempio di Crivellari, in località Borgo Rivola, nella valle del Senio, e di Tossignano nella valle del Santerno. Qui le fondamenta sono un tutt'unico con il naturale, ma irregolare pianterreno gessoso. E il discorso va ripetuto per la Val Lamone, ricco bacino di miniere, anzi di "montagne di gesso, che cotto e pesto serve mirabilmente per fabbricare case, massime dove la pioggia non bagna, che così il gesso sta forte, essendo al coperto" ( 37) .

L'abbondanza del materiale ne faceva merce da esportazione nella vallata, a Faenza e a Ravenna (38). Proprio l'opposto nella valle del Santerno: dove sembra, sulla scorta di una recente pubblicazione, che l'uso del gesso proveniente da Tossignano fosse circoscritto "agli edifici situati sulla Vena o nelle immediate vicinanze" visto che "a Fontanelice, ad una distanza di appena 3 chilometri dalla Vena, per costruire non si è mai usato gesso bensì sasso di fiume squadrato" (39). Qualunque ne siano le ragioni, l'uso della locale roccia nella fabbricazione di case è confermato in documenti del 1400 (40). Anche a Brisighella, il gesso era il materiale per la costruzione delle abitazioni. Negli anni in cui Metelli scrive la sua voluminosa Storia di Brisighella (1844-1859), la polvere di gesso impastata con acqua sostituiva la calcina nell'intonaco esterno sui blocchi di gesso a protezione delle intemperie (41).

Più che un semplice lavoro, l'attività dei gessaroli era un'arte. Di lunga tradizione e fama nel Bolognese. Meno a Gesso, il piccolo centro nella diocesi di Sassatello, dove l'uso scarso e poco vario del materiale era imputato dal Calindri alla poc'arte dei "nazionali scalpellini", i quali "se avessero... l'arte di meglio lavorarlo e di farle prendere il lustro servir potrebbe di un capo di commercio al bolognese per uso de' suoi popoli e de' confinanti; ma mancando l'Arte suddetta in detti Artieri non è capace di solleticare quanto basta l'occhio de' curiosi, per propalarne le lodi e l'uso" (42).

Un materiale che comunque, pur "senza essere speculare come l'altro gesso bolognese", "tende alla purezza dell'alabastro.... ed è superiormente bianco candido, internamente di color turchiniccio, macchiato di verdastro in fondo bianco sporco... e venato quasi come il "Marmo Greco"; è ottimo per farne lavori di porte interne, di camini e di tavole da servizio per gli appartamenti" (43).

Ma l'attività dei gessaroli era caduta in declino fin dal XIII secolo, in parallelo con la perdita di valore commerciale della selenite cui si andava progressivamente sostituendo l'arenaria. Il mercato si contrasse e il gesso un poco alla volta finì confinato ad usi secondari: sempre meno pietra da taglio, sempre più triturato e cotto.

Inesorabilmente, dunque, l'arte dei gessaroli evolve nel lavoro dei fornaciai, cui si associa una gestione familiare che impegna molta povera gente nell'esercizio di cuocerlo al forno e frantumarlo in polvere; in un lavoro tanto duro e ingrato e rudimentale, che non risparmia donne e bambini, e che comunque si tramanda di padre in figlio (44). Senza equivoci, serve precisare che "i grandi utili derivanti dalla vendita del gesso" - ne parla Calegari nella sua Cronaca - investono la sfera del commercio ( e forse il giudizio anche in questo caso vorrebbe ridimensionato), non la produzione del gesso, ancora artigianale e organizzata su piccola scala.

La tecnica di estrazione del gesso è cambiata nel corso dei secoli. Gli schiavi romani lo sbrecciavano per mezzo di "cunei di legno, successivamente gonfiati di acqua, infissi nelle fessure naturali della roccia o in quelle faticosamente ricavate con utensili metallici" (45). Minori le fatiche secoli dopo, in seguito all'introduzione della polvere pirica: allorché sarà "divelto dalla cava mediante lo scoppio della polvere intromessa per un foro, e diviso e ridotto per forza di picconi e di accette in grossi cubi" (46).

Infine, due altre lavorazioni completano la storia dello sfruttamento del gesso: come materiale per creare decorazioni fu in uso fin dai Romani; mentre sottoforma di sottili lastre, la selenite sostituì il vetro (47).

Opere citate

(1) Si veda la tesi di laurea di D. Marangoni, Aspetti antropogeografici nella "Vena del Gesso" romagnola, relatore L. Varani, Facoltà di Magistero, anno accademico 1974-75, p. 66.

(2) A. Turchini, "Società, Banditismo, Religione - e controllo sociale - fra Romagna e Toscana: La Val Lamone nel XVI secolo", in "Studi Romagnoli", 1977, pp. 257-280.

(3) AA.VV., Rocche e Castelli di Romagna, Bologna, Alfa, 1970, vol. 1, p. 156.

(4) G.A. Calegari, Cronaca di Brisighella e Val d'Amone (dall'origine al 1504), Bologna, Romagnoli, 1883, pp. 19-20.

(5) AA.VV., Rocche e Castelli di Romagna, op. cit., p. 156.

(6) Il rilievo, di L. Marinelli, è in D. Marangoni, cit., p. 66.

(7) AA.VV., Rocche e Castelli di Romagna, op. cit., p. 156.

(8) Olivieri, Per una storia religiosa, citato in A. Turchini, "Società, Banditismo, Religione - e controllo sociale - fra Romagna e Toscana: La Val Lamone nel XVI secolo", cit., p. 269.

(9) F. Braudel, Civilità e Imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1976, p. 792 e in generale pp. 787-792.

(10) A. Turchini. "Società, Banditismo…" cit., pp. 268-269.

(11) In F. Braudel, Civilità e Imperi del Mediterraneo… op. cit., pp. 791-792.

(12) A. Turchini, "Società, Banditismo…" cit., p. 269.

(13) A. Lega, Fortilizi in Val di Lamone, Faenza, 1886, pp. 98 e 106.

(14) AA.VV., Rocche e Castelli.... op. cit., p. 324.

(15) Ibid.,

(16) D. Marangoni, cit., pp. 88 e 91-92.

(17) A. Lega, op. cit., p. 68.

(18) Ibid.

(19) AA.VV., Rocche e Castelli…, op. cit., p. 267: la citazione è tratta dal Lega.

(20) R. Galli, La rocca di Tossignano. L'ultimo baluardo di Ramazzotto, citato in D. Marangoni, cit., p. 83.

(21) Calindri, Dizionario corografico, georgico, orittologico, storico ecc. dell'Italia. Montagna e collina del territorio bolognese, Bo, 1781-1782, pp. 40-41.

(22) Ibid., pp. 331-333.

(23) Ibid., pp. 290-291.

(24) P. Jones, "Dall'impero militare all'impero economico: l'Italia nello sviluppo economico dell'Europa Medievale", in AA.VV., Dalla caduta dell'Impero Romano al secolo XVIII, in Storia d'Italia, Torino, Einaudi, 1974, vol. II, p. 1597.

(25) Calindri, op. cit., p. 11.

(26) P. Zangheri, Flora e vegetazione della fascia gessoso-calcarea del basso Appennino romagnolo, Forlì, 1959, p. 234.

(27) L'informazione, che risale a Catone, è ripresa dal Righini nel suo "Profilo di storia economica", in AA.VV., Storia dell'Emilia-Romagna, op. cit., pp. 175-176.

(28) G.A. Mansuelli - R. Scarani, op. cit., pp. 78-79.

(29) F. Pratesi, "Gli ambienti naturali e l'equilibrio ecologico", in AA.VV., Insediamento e territorio, in Storia d'Italia, Torino, Einaudi, 1985, Annali 8, p. 70. Le stime sulla popolazione sono elaborate da A. Bellettini, in: La popolazione italiana dall'inizio dell'era volgare ai giorni nostri. Valutazioni e tendenze", Storia d'Italia, To, Einaudi, 1985, Vol. 5/1, p. 497.

(30) F. Pratesi, "Gli ambienti naturali cit., p. 69.

(31) Ibid., p. 73.

(32) M. Montanari, "Strutture produttive e alimentazione contadina nel Medioevo". in AA.VV., Itinerari storici. Il Medioevo in Emilia, Carpi, pp. 23-25,

(33) Ibid.

(34) V. Fumagalli, La pietra viva, Bo, il Mulino, 1988, p. 57.

(35) M. Vianelli, I gessi di Bologna, Bo, 1989, Nuova Alfa Edit., pp. 75-76.

(36) Ibid., pp. 70-71.

(37) Calegari, op. cit., pp. 31-32.

(38) Ibid.

(39) AA.VV., La Vena del Gesso romagnola, Rimini, 1989, Maggioli, p. 50.

(40) S. Savorani, "Richì d'Saraca. I Gessaroli", in AA.VV., La Valle del Senio tra cronaca e storia, a cura della Cassa Rurale ed Artigiana di Castelbolognese, Imola, 1984, p. 145.

(41) Metelli, Storia di Brisighella e della Valle di Amone, Faenza, Tip. P. Conti, 1869, p. I, Vol. I, p. 46.

(42) Calindri, Dizionario corografico..., pp. 32-34.

(43) Ibid.

(44) G.A. Calegari, op. cit., p. 32; e inoltre: Vianelli, op. cit., p. 74. E AA.VV., op. cit., p. 50.

(45) Vianello, op. cit., p. 70.

(46) Metelli, Storia di Brisighella, op. cit., vol. I., p. 46

(47) A. Scicli, L'attività estrattiva e le risorse minerarie della regione Emilia-Romagna, Mo, 1972.

 

[a] Fig. 1 Fig. 2 Fig. 3
Fig. 4 Fig. 5 Fig. 6 Fig. 7
  
[a] - Base dello spalto di un castello fondato su una rupe gessosa - Ca' sassatello. (foto S. Raccagni).
Fig. 1 - I ruderi del Castello di Rontana semisepolti dalla fitta vegetazione. (foto S. Raccagni).
Fig. 2 - Ciò che resta di una torre conica dopo la distruzione della fortificazione - allora covo permanente di banditi - voluta nel 1591 dal cardinale Sforza. (foto S. Raccagni).
Fig. 3 - All'interno della torre conica - ha scritto il Lega - "vi sono passaggi che mettono al ridotto, al rivellino esterno o ponente e al torrione di levante" (la citazione è di Daniela Marangoni). (foto S. Raccagni).
Fig. 4 - Parco Carnè: estese coltivazioni cerealicole costeggiano i margini della fitta vegetazione. (foto S. Raccagni).
Fig. 5 - L'accesso al Castello di Rontana, nelle immediate vicinanze. (foto S. Raccagni).
Fig. 6 - Parco Carnè: anfratto e inghiottitoio seminascosti tra le fronde. (foto S. Raccagni).
Fig. 7 - Parco Carnè: forme carsiche nel gesso. (foto S. Raccagni).

  

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