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Regione Emilia Romagna; Assessorato Pianificazione e Ambiente, Collana naturalistica - La Vena del Gesso - 1974 | ||
VERSO LA MODERNIZZAZIONE DEI RAPPORTIDI PRODUZIONE. L'HOMO FABER Susanna Raccagni Dall'invasione dei Galli Boi e successiva conquista romana, la storia della micro-regione gessosa di Croara-Monte Calvo rientra nel circuito politico-economico delle vicende bolognesi (1). E con insolito vigore dopo il Mille quando anche le località site nei Gessi, questa volta romagnoli, dovranno fare i conti con Bologna. In effetti nel XII e XIII secolo, la città ha due opposte direttrici di espansione, ad ovest e ad est. Le guerre condotte tra Modena, l'Abbazia di Nonantola e i vassalli Matildici, sono lo scenario che guida la penetrazione bolognese ad occidente. Nel 1164 l'abitato di Gesso nelle vicinanze del torrente Lavino, punta estrema dei Gessi bolognesi a ponente, si era spontaneamente consegnato alla protezione della città (2). Intanto sull'altro fronte, ad est, prosegue la politica espansionistica di Bologna, che fa perno sull'alleanza con Faenza, mirando a Imola: insieme assoggettano pacificamente il "comitato privo di governo" e "nel 1198 i bolognesi sottomisero alcuni castelli di montagna vicino al confine imolese" ( 3) . Tra gli altri, vi è quello di Sassatello, a ovest di Tossignano. Poi vi soggiacciono altre località sparse, incluse nel quadrilatero produttivo delimitato dalla fascia gessosa romagnola, dal Castello di Tossignano, dal Senio e dalla pianura: ciascuna tributaria al Vescovo di Imola, il cui potere non discendeva peraltro dal godimento di poteri comitali (4). Piuttosto l'insofferenza degli abitanti ostili al Vescovo cresceva in ragione dello sviluppo economico e commerciale della zona. Quando, dopo alterne vicende, nel 1248, i bolognesi occuparono il comitato imperiale di Imola, a Tossignano - assurto a capoluogo di distretto - toccò di amministrare la zona montana tra il Santerno e il Senio. Al di là della forma, l'evento accentua l'avvenuta dipendenza di Imola da Bologna. Ed è significativo che si tratti di un'area di forte sviluppo agricolo con al centro Imola divenuta luogo d'ammasso del surplus eccedente l'autoconsumo, punto di riferimento per l'intero bacino e via di transito per una produzione che, a partire dal XIII secolo, è sempre più destinata a Bologna, la città che è "tra le cinque o sei più popolate d'Europa" (5). Se l'aumento della popolazione è un dato di fatto - né vi sono dubbi in proposito - la fame di grano si coglie in parecchie circostanze: riflessa, com'è, nei tanti statuti che mirano all'incremento dell'agricoltura, o alla proibizione di tenere a maggese campi arabili o al calmiere dei prezzi, "all'ordinanza che tutti i cereali del contado, tranne quelli usati per la semina o per il sostentamento degli abitanti, dovevano essere avviati a Bologna per la vendita" (6). Bologna è la grande città, la sede del mercato più importante. Il contado, anche il più lontano, è chiamato a produrre per essa, per i suoi cives, aumentando lo sfruttamento agricolo dei suoi poderi. Cosa ebbe in cambio la periferia? Poco in verità, a giudicar dal fatto che si "ordinò alle comunità rurali la costruzione di fornaci a spese della comunità" (7). Non è che un esempio, eppur sintomatico, della dinamica e dei rapporti di forza instaurati tra città e campagna. Gran parte della fascia gessosa emiliano-romagnola - perlomeno la più favorita per le sue vocazioni agrarie in rapporto alle naturali condizioni geologiche - ossequiò i bisogni cittadini. Le zone di Gesso, Croara, Casaglia, Castel de' Britti, nel Bolognese, sostennero il fabbisogno cerealicolo con la produzione di grano e di marzatelli. Nonché di vino: importante voce anche di esportazione (Castel de' Britti), che nella bilancia dei pagamenti contrastava il negativo dovuto alle crescenti importazioni di cereali. Si puntava all'incremento della produzione agricola per risolvere "l'emergenza cerealicola. Della quale sono un probante indizio la quantità di mulini che cinsero Bologna lungo il "ramus reni" e che spuntarono sul canale del Savena, là dov'era la chiusa di San Ruffillo sul limitare del bacino di produzione dell'area gessosa (8). Bologna arriverà a possedere 50 mulini "che secondo gli statuti comunali non potevano essere alienati, ma solo affittati annualmente dietro pagamento di cereali" (9). Dato oltremodo eloquente del crescente loro valore, è giudicar il fatto che il canone pattuito andava integralmente corrisposto in cereali. Analoga situazione alberga nelle valli romagnole, dove i mulini sono diffusissimi nelle valli del Senio, Sintria, Lamone e Santerno. Non di rado in comproprietà, e tanto bastava a garantire prestigio, ricchezza e a scongiurare la fame (10). Patrimonio prezioso - quello dei mulini - se tanto a lungo resta viva nei secoli la loro memoria. Il Calindri li annota tra le risorse economiche dei luoghi ancora a fine Settecento. La tecnica per la loro costruzione è ritenuta arte, come nel caso di Castel de' Britti. Persino, gli artefici di mulini suppliscono alla mancanza di architetti e di ingegneri (11). "Durante il XV secolo - scrive Costa - spuntavano come funghi ed anche in numero superiore alle necessità... Nel 1490, in un percorso di appena 7 km, dalla villa di Cuffiano alla Tana del Re Tiberio, se ne contavano 9" (12) . D'altra parte i mulini non macinavano solamente cereali. Conoscevano altre destinazioni d'uso. A Borgo Rivola, uno tritura gesso. A Monte Donato, un altro era ancora in funzione sul finire dell'ultimo secolo. Anteprima della moderna società per azioni - nell'espressione di Costa -, i mulini sono al servizio delle più svariate attività industriali del secolo: "triturano la scorza della quercia per la concia delle pelli, impastano vernici, fanno soffiare il mantice, battono il ferro incandescente, frantumano la ghiaia... Più tardi vi si produrrà persino la polvere da sparo" (13). In mezzo a tante e varie produzioni, ce n'è una particolarissima: nelle vallate romagnole si impianta l'industria del sale, "per rendersi indipendenti da Cervia". Scottante problema di quei tempi. Visto che Bologna la faceva da padrone. Il 12 agosto del 1248, il Comune aveva monopolizzato l'intera produzione salina di Cervia, impegnandola per i successivi 10 anni a prezzi prefissati (14). Fuori di discussione è l'alto valore del sale nell'economia del tempo, essendo alla base dei processi di conservazione alimentare (di carne, pesce, ecc). Perfino nei secoli "bui" del Medioevo, di enorme rarefazione dei commerci, le vie del sale restarono aperte. Perché non, allora, un'industria del sale locale, nelle vallate romagnole? Praticamente una risorsa naturale per le comunità vicine alla catena gessosa, un po' dappertutto là dove si lamentava il sapore amarognolo dell'acqua. Acque "in generale poco buone ed amarognole" sono a Gesso di Bologna e Casaglia; acidule a Gaibola; inservibili alla popolazione, a Croara; amarognole e solfuree a Gesso di Sassatello e a Monte Maggiore... insomma ovunque le acque scorrano su terreni gessosi. Ma non tutte le popolazioni - pare - vi ricavassero sale. Di Casalfiumanese, Calindri scrive: "più Fonti, o Sorgenti salate, delle quali non se ne fà alcun uso, per indolenza, per timore, e per non convenire col proprio danno ai noti impedimenti..." (15). Non così nelle intraprendenti terre di Romagna, ove nel 1400 "a Mongardino nel Casolano e a Riolo, l'acqua delle sorgenti salse vien fatta bollire in enormi caldaie di rame fino a ottenerne per evaporazione il residuo salino. Con lo stesso sistema, sebbene in proporzioni ridotte, lo ricavavano anche molti abitanti del luogo" (16). Sono le prime risposte locali, per bisogni resi più cocenti dalla presenza di Bologna. Sempre in questi secoli, nelle valli del Senio e del Lamone, cresce la produzione agricola (incluse le coltivazioni industriali tessili. Nel 1400, a Brisighella, la produzione serica era già diffusa), l'allevamento, l'artigianato. Senzaché, per questo, il dato della ricchezza economica vada sopravvalutato. I benefici locali, l'immigrazione di manodopera, l'importanza crescente dei due mercati - di Casola Valsenio e di Brisighella - "fra i principali della regione" sono gli indicatori di uno sfruttamento agrario avviato non tanto all'insegna di esigenze locali, quanto di bisogni indotti altrove: sono i primi avvisi di una trasformazione economica orientata all'insegna della commercializzazione dei prodotti, di una integrazione intracomunitaria dei mercati, comunque obbedienti a precisi sistemi di gerarchizzazione del territorio (ed è la stessa ottica che determina l'estensione dei castagneti ai danni delle querce). Ben poco della maggior ricchezza derivata dalle crescenti esportazioni sarà a beneficio dei ceti meno abbienti della popolazione locale. Se nel corso del XIII secolo, Imola esportava grano, frutta (pere e mele); noci (e forse olio di noci); castagne, uva, vino, olio; e ancora carni bovine, suine, ovine, oltre ai tradizionali prodotti della pastorizia, formaggi e lana; dalle valli romagnole uscivano grano, frutta e olive. Sono gli esempi di un accresciuto sfruttamento del suolo, possibile in ragione dello sfaldarsi del latifondo che è attestato - per queste valli - dagli atti di compravendita i quali ci documentano l'esistenza di una piccola proprietà attiva e in crescita, di opere di bonifica e di fertilizzazione. Costa menziona un contratto relativo ad un podere sito a Brisighella in cui al mezzadro si impone di concimarlo con addirittura "80 birocciate di letame" (17). La tendenza è verso forme di sfruttamento intensivo del suolo. Che non tralasciano di creare - attraverso le ristrutturazioni agrarie - l'alterazione delle vocazioni rurali dei suoli. Insistiamo sull'esempio di Imola, nel cui contado, tutt'intorno alla fascia collinare risalendo le vallate del Santerno e del Sellustra, allogava la vite da quando - in età carolingia, nell'Alto Medioevo - se ne era estesa la coltivazione. Come oggi inducono a pensare i frequenti toponimi (di probabile ascendenza alto-medioevale) sparpagliati qua e là nel circondario imolese: i vari Monte "Vignola"; villa "Vignola" nei paraggi di Gesso; o casa "La Vigna" nei dintorni a mezzogiorno di Tossignano (18). Restando a Pini, non è da escludere che l'espansione viticola imolese, confermata fino al XII secolo, sia incorsa nella stasi o perfino nella contrazione produttiva dalla metà del XIII secolo, quando la penetrazione politica ed economica di Bologna tagliò i ponti commerciali esistenti tra Imola e Venezia. A Bologna non serviva il vino - che lei per prima esportava - bensì il grano. Così è possibile - ed è la conclusione di Pini - che l'economia imolese abbia aumentato le colture cerealicole e prative a discapito di quelle vitivinicole (19). La ristrutturazione agraria ha evidentemente i suoi rischi: l'economia modellata all'insegna delle esportazioni espone alla fame soprattutto la piccola proprietà contadina. Ed è uno spettro che ritorna ogni volta che gelate, alluvioni, siccità e saccheggi compromettono i raccolti (20). Come dire spessissimo. Già Calegari lamenta che se il territorio di Brisighella "è fertile in se stesso e ben coltivato, tuttavia per la moltitudine degli abitatori, che per la maggior parte stanno sulle loro possessioni, non rende mai tanto che basti a sostenerli per tutto l'anno. ...confinando con lo Stato Fiorentino in quella parte sterile, vengon loro sempre rubati per contrabbandi grani e altre biade" (21). Di più. Lo sfruttamento comunitario del bosco con le sue numerosissime risorse viene a mancare. E castagne e marroni - da lungo tempo pane e sicuro nutrimento per montanari e valligiani - sono ormai oggetto di commercio: a Venezia e di lì in Levante, "estimati più di tutti gli altri" (22). Da Brisighella si esportano ancora vino e grano (ben 38.000 corbe sono la produzione del 1575) (23) e cappelli di lana in gran quantità per la vallata, per il Mugello e il Casentino. Sono estesa risorsa locale. "Non si dimentichi - scrive Turchini - che circa il 33% della Val Lamone e dell'alto Santerno veniva proprio destinato al pascolo (così come l'1l % si lasciava al dominio del castagno) (24). Castagno che a pieno titolo rientra nel quadro delle locali vocazioni agrarie; esso conosce un'artificiale diffusione in ragione degl'interventi dell'uomo che lo sostituì ai querceti. E difficile misurare l'esatta consistenza del fenomeno limitandosi alla microregione gessosa: tuttavia il dato ha riscontro un po' ovunque, nell'Imolese, nei dintorni di Brisighella. L'arca di Croara - ha scritto Pallotti - "fa prosperare le colture del frumento, dei foraggi, della vite e degli alberi da frutto, unitamente ad alcune varietà di ortaggi (pomodori, asparagi, carciofi) (25). Nemmeno troppo diversa la produzione tipica di secoli prima. Forse appena meno estesa, e con qualche boschetto in più. Infatti, nel 1781, Calindri ci documenta l'abbondanza di frutta, ghianda, pascolo ad erba. L'uva, seppur non abbondante, era apprezzata di "qualità preziosa" e produceva vini definiti "delicati e generosi". Un impulso alla loro produzione si era verificata per volontà dell'Abate del Monastero di S. Cecilia della Croara, il quale, attraverso l'impianto di "alberi di varia sorte, e di viti", l'aveva più che raddoppiato le entrate del Monastero" (26). E poi ancora grano, pochi marzatelli e molti carciofi. Una panoramica delle vocazioni agrarie esistenti nei territori della fascia gessosa bolognese, sullo scorcio del XVIII secolo, si evince dal compendio del Calindri. Eccone riassunti i dati più eloquenti: Gesso (a ovest di Bologna): "molta e preziosissima uva, molte e buone frutte, molta legna da fuoco, molta ghianda"; cinque misure per ognuna di sementi di grano; poi marzatelli; sufficiente quantità di fieno; infine "poche terre sodive con pascolo ad erba", poche le piante tessili, lino e canapa. Dunque si tratta di terreni di prevalente sfruttamento agricolo, con colture specializzate, con l'eccezione delle piante industriali. Casaglia (di Gaibola): "molta uva e preziosissima, e quantità di quella uva detta di Venezia, per lo smercio notabile, che di questo genere si fà per quella Piazza. Vini rari si fanno dalle uve prodotte in questi territori"; e poi buona frutta, seppur non abbondante, e molta ghianda; sufficiente quantità di fieno per il bestiame e poca legna da ardere; poco pascolo e poche terre sodive; come pure poca canapa e seta; tre misure per ogni semente dal grano; lo stesso dai marzatelli che sono in piccola quantità; carciofi e altri ortaggi. Gaibola: molta ghianda e molta legna da fuoco; poca uva e frutta, ma buona; consistenti pascoli ad erba; nonché prodotti ortofrutticoli, carciofi e piselli in testa. Pochi ma preziosi marroni; tre misure per ognuna di grano; pochi i marzatelli; fieno sufficiente al bestiame dei proprietari. In quantità mediocre la seta, poca la canapa. Croara: ricca di frutta, ghianda, boschi di legna, pascolo ad erba; quattro per ogni misura di grano; parecchi carciofi; poca uva, seppur di qualità; sempre rare le colture tessili, canapa e seta. Castel de' Britti: economia agricola ricca di uva (buon Sangiovese), frutta (specialmente pere) e al solito molta ghianda. Poco fieno e poco pascolo. Pizzocalvo: più povera l'economia di questa regione; fa eccezione la produzione di ghianda (in aggiunta ai pochissimi e piccoli castagneti) e soprattutto la canapa "molta... relativamente alla situazione e grandezza del Territorio"; non molta la seta; grano e marzatelli in ragione di quattro per una misura di sementi. Tombe di Sassatello (sconfinando nei Gessi romagnoli, sull'estrema punta occidentale della catena): povera l'economia del luogo con poca uva, frutta, ghianda, fieno e marzatelli; molti boschi da legna da fuoco e molto pascolo dalle sue estese terre sodive; quattro misure per ognuna dal grano e due dai marzatelli; in complesso, un quadro che giustifica l'espressione "sbandonato e semincolto territorio". Da ultimo, l'abitato di Gesso (soggetto al comune di Sassatello): conferma un'economia povera, priva di colture specializzate (uva, frutta, castagne, seta) e segnata da un'economia agropastorale che dà ghianda, legno per fuoco, molto pascolo ad erba (27). Una rassegna attorno alle vocazioni agrarie fino alle soglie del XIX secolo va letta in relazione alle tendenze demografiche locali, pena l'incomprensione dell'evoluzione in atto. Il dato europeo - forte del suo incremento di popolazione pari al 65% - sigla il '700. Ma nel Bolognese, nonostante sporadici aumenti nel contado, e nell'Imolese, la realtà è un'altra: persistono e si confermano le caratteristiche demografico-produttive pre-industriali. Non siamo ancora all'avvio della modernizzazione dei rapporti di produzione, con il relativo passaggio dall'economia e società tradizionali al moderno capitalismo industriale-agrario. Il quadro tende alla stabilità nelle campagne: sostanziale è la stazionarietà demografica e produttiva. Che non significa comunque due cose: né scarsa densità di popolazione (28); né assoluto immobilismo nelle campagne: il commercio dei grani con Bologna, che aumenta nel periodo 1775-1779, dà la misura di una persistente tendenza a produrre cereali. Non solo: l'arativo arborato cala rispetto al secolo precedente, mentre cresce l'arativo semplice. Diminuiscono i boschi in collina e va scomparendo l'ulivo. I terreni calanchivi crescono e aumenta la quota di terreno incolto. Eppure tutto ciò non basta a definire un radicale sistema di trasformazioni in senso capitalistico e prosegue piuttosto il corso degli aggiustamenti economici locali, intracomunitari, in atto da tempo. La stessa tendenza all'interno della proprietà (dove si registra il calo della piccola e l'aumento della grande tra i 100 e 200 ettari, soprattutto in collina) non ha granché alterato l'equilibrio economico-sociale della zona, "la fisionomia della campagna e lo svolgimento della vita rurale" che restano improntate alla "prevalenza della "piantata" sulle altre colture, lo spezzettamento della proprietà in molte aziende medie e piccole, la conservazione dei contratti agrari di mezzadria" (29). Opere citate (1) V. Pallotti, "La microregione di Croara-Monte Calvo nel Preappennino bolognese", in l'Universo, Fi, 1968, I, pp. 139-140. (2) Diversamente dal Pugliòla che posticipa al 1165 l'avvenimento, sia Matteo Griffoni sia il Ghirardacci avvalorano la carta di dedizione in Archivio, che data al 14 Dicembre 1164, secondo quanto ci riferisce il Calindri in: Dizionario corografico.... op., cit., pp. 40-41. (3) A. Hessel, Storia della città di Bologna - 1116 - 1280, Bo, Alfa, 1975, p. 88. (4) Ibid., p. 41. (5) A.I. Pini, "Le attività produttive nel Medioevo: corporazioni artigiane e vita commerciale a Imola nei secoli XI-XV". in Il Carrobbio. Bo, p. 89. (6) A. Hessel, op. cit., p. 198. (7) Ibid. (8) Ibid., pp. 198-199. (9) Ibid. p. 199. (10) L. Costa, "Una società per azioni nel secolo XV: il molino", Archivio L. Costa p. 125. (11) Ibid. (12) Ibid. (13) Ibid., p. 118. (14) A. Hessel, op. cit., pp. 123-124. (15) Calindri, Dizionario corografico… op. cit., vol. II, p. 134. (16) L. Costa, "Aspetti sociali ed economici del contado romagnolo nel XV secolo", - Archivio Leonida Costa - p. 33. (17) Ibid., p. 33. (18) A.I. Pini, "Produzione e trasporto del vino a Imola e nel suo contado in età medievale", in "Studi Romagnoli", Faenza, XXV, 1974, pp. 235-238. (19) Ibid., per confronto le pagine 238-242. Evidente è la trasformazione agraria accorsa nei secoli, se si ricorda che dei 457 atti del XII secolo compresi nel "Chartularium Imolese", quasi 1/3, cioè 131, si riferiscono a terra vignata e... 64 a vigneto specializzato e il rimanente a vigneto misto ad altre colture. (20) "Bando contra li Robbatori d'uve, frutti, legna et fasci etc.", pubblicato in Bologna, Atti, 17 Agosto MDLXXXI. (21) G.A. Calegari, Cronaca di Brisighella… op. cit., pp. 23-24. (22) Ibid., p. 31. (23) A. Turchini, "Società, Banditismo…" op. cit., p. 23-24. (24) Ibid., p. 259. (25) V. Pallotti, "La microregione di Croara-Monte Calvo…" cit., p. 146. (26) Calindri, Dizionario corografico.... op. cit., pp. 326-327. (27) Calindri, Dizionario corografico.... op. cit.: si confrontino le voci in elenco. (28) C. Rotelli, "Il territorio imolese nel XVII e XVIII secolo", in: La distribuzione della proprietà terriera e delle colture ad Imola nel XVII e XVIII secolo, Mi, 1966, pp. 14-17, (29) C. Rotelli, "Le modificazioni nella proprietà terriera", in La distribuzione della proprietà terriera.... op. cit., pp. 110-114. |
Fig. 8 - Parco Carnè: luminosa fioritura di ginestra. (foto S. Raccagni). |
Fig. 9 - Il pavone nel Parco Carnè. (foto S. Raccagni). |
Fig. 10 - I cervi nel Parco Carnè. (foto S. Raccagni). |
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Speleo GAM Mezzano (RA)